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IL RACCONTO/FIGLIO O LAVORO

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

29
NOV
2018

Forse qualcuno dovrebbe avvisarci quando una storia d’amore sta per iniziare. Qualcuno dovrebbe mandarci dei segnali precisi, invece si è sempre sorpresi quando accade, e per questo mi sono trovata a invidiare tutto di Paola. Il suo fisico, per esempio, così perfetto. Gli occhi verdi, le mani affusolate e sempre ben curate, la sua impertinenza, la battuta pronta e anche il suo lavoro.
Quello che più di tutto ho invidiato di lei, però, è stata la sua storia d’amore con Alessandro. Mio marito.
Gli psicologi la chiamano gelosia retroattiva o sindrome di Rebecca (nome ispirato dal film di Alfred Hitchcock, ovvero, Rebecca la prima moglie). Ed è quel sentimento folle e immotivato che si prova verso il passato sentimentale e sessuale del proprio partner. Ma la mia era una combinazione di gelosia e insicurezza, alimentata dal confronto continuo con Paola: lei bellissima, elegante, lavorativamente ed economicamente sistemata mentre io ero, e continuo a esserlo, semplicemente carina e con un lavoro precario.
Quando ho conosciuto Alessandro, la sua storia con Paola era finita ma erano rimasti amici e i loro rapporti continuavano a essere buoni. Si sentivano spesso e mi capitava, quando eravamo ancora fidanzati, di ritrovarmela davanti, con uno dei suoi nuovi accompagnatori, in pizzeria o quando ci incontravamo con gli amici. Ma anche se temevo che il rapporto non fosse mai finito, mi ripetevo che il loro non poteva essere stato un grande amore e nemmeno una storia seria. E mi rallegrava che si fossero lasciati e Alessandro avesse scelto me.
Insomma cercavo di tranquillizzarmi, di non pensarci, ma bastava un niente: assistere a una loro telefonata, incontrarla per strada o sentire parlare di lei, che la gelosia tornava prepotentemente a tormentarmi e il motivo era sempre lo stesso, la gelosia. Alessandro mi aveva attratta da subito come nessuno, lo amavo e temevo di perderlo.
Non è stato il mio primo amore, ma è stato quello che ho sognato per tutta la vita. Aveva una magrezza sensuale, lineamenti delicati, labbra carnose e una chiostra di denti perfetta. Ma non era solo il suo corpo a piacermi; mi stregava la sua aria sofferta, misteriosa e quello che mi colpì di più non è stata la bellezza ma quella sorta di malinconia nello sguardo e il sorriso intrigante che gli illumina ancora adesso il viso.
Ma non avvezza a colpi di testa, prima di lasciarmi andare ho voluto prendere tempo, pensarci bene, e ci sono riuscita fino a quando una sera ci siamo trovati in macchina da soli e invece di riaccompagnarmi a casa mi ha portato a fare una passeggiare in riva al mare e, mentre mi baciava, ho pensato che sino a quel momento mi ero solo sottovalutata.
Tutto iniziò così, in modo semplice e quasi banale: la luna, le stelle, il tepore primaverile, lo sciabordio delle onde e noi due da soli.
Tornai a casa frastornata dai suoi baci, felicissima e anche fidanzata.
Tre anni di fidanzamento e con l’aiuto dei nostri genitori abbiamo messo su casa e ci siamo sposati.
Ma ora sono qui da sola e da cinque minuti mi sto guardando allo specchio e non so decidermi, non so come dirglielo. E come da ragazza, lo specchio riflette la mia immagine controversa, la stessa che mi ha perseguitato per tutta la vita. Ma oggi ho toccato i due apici dell’emozione: la felicità e la paura nello stesso tempo. La smisurata felicità prima e un istante dopo la paura.
E sono ancora qui a chiedermi come una notizia possa trasformarsi da meravigliosa a paurosa nel volgere di un istante e, stupidamente, sto aspettando che sia lo specchio a svelarmi il mistero, anche se dubito possa farlo perché è la reazione di mio marito che mi preoccupa.
Siamo sposati da tre anni. Insegnante precario lui e operaia con contratto a rinnovo mensile io. Niente di diverso dal resto di tanti coetanei che sono alla ricerca di un lavoro migliore e stabile.
Da quando ci siamo sposati, facciamo i salti mortali per arrivare alla fine del mese e pagare l’affitto senza andare in rosso. Facciamo economia su tutto e ci priviamo quasi di tutto. Ci muoviamo con i mezzi pubblici e lasciamo la macchina sotto casa. La spesa la facciamo una volta a settimana, acquistiamo solo lo stretto necessario e prestiamo attenzione a tutte le offerte. Per il cinema usiamo i bollini accumulati al supermercato e per le mostre e i musei aspettiamo le domeniche gratis. In pizzeria non ci andiamo da una vita, trascorriamo le serate in casa e solo qualche volta ci concediamo una botta di vita e invitiamo una coppia di amici.
Stratagemmi e salti mortali che nemmeno i trapezisti del circo riuscirebbero a fare.
Alessandro ha trentaquattro anni, una carriera da supplente tra elementari e medie, la pazienza di Giobbe e una passione per l’insegnamento che gli fa onore, ma la graduatoria scorre così lentamente che continua a penalizzarlo e lo lascia, ahimè, sempre troppo indietro per sperare nel sospirato passaggio in ruolo.
Io ho tre anni meno di lui, e dopo aver tentato tutti i concorsi pubblici, compresi quelli delle Forze dell’Ordine e Armate, cercato un posto adeguato al mio titolo di studio e aver sostenuto decine di colloqui con il finale scontato: “le faremo sapere”, ho smesso di mandare in giro curricula, ho messo da parte la laurea e mi sono rassegnata ad accettare qualsiasi impiego che mi venisse offerto. Infatti, alle spalle ho una carriera invidiabile da tutto fare: cameriera a chiamata nei ristoranti, operatrice di call center per una ditta di mobili e di vendita online, hostess per agenzie che organizzano eventi, commessa nei periodi natalizi e una smisurata esperienza come baby sitter a ore.
Adesso, disposta a tutto pur di lavorare, mi ritrovo a inscatolare prodotti dietetici, insalate verdi e barattoli di pelati per una ditta che si avvale di personale assunto con contratto a rinnovo mensile.
Una routine noiosa e pesante, che mi obbliga a stare tutto il giorno in piedi, che mi rovina le mani e mi fa dolere la schiena, ma adesso, con quello che mi è capitato, temo di perdere anche questo lavoro e ho paura che senza il mio stipendio non riusciremo più ad arrivare alla fine del mese.
«Che succede Daria? Tutto bene?»
La voce di Alessandro mi distoglie dalle preoccupazioni che mi angosciano e rispondo:
«Nulla. Esco subito».
È appena tornato a casa, con una pila di compiti da correggere e questo sarà il suo dopo cena, mentre il mio lo trascorrerò, sicuramente annoiandomi, davanti alla tv.
Esco dal bagno e provo a smorzare con un sorriso il tormento che covo dentro, ma per lui sono un libro aperto e capisce subito che c’è qualcosa che non va. Mi prende la mano, mi fa sedere sul divano e aspetta che gli dica ciò che mi tormenta.
«Mi vuoi dire cosa sta succedendo? È di nuovo il lavoro che ti preoccupa?» Chiede.
«Oggi è successa una cosa, anzi due». Mi giro verso di lui e lo guardo dritto negli occhi.
«Sentiamo, cosa sarebbe successo di così tragico oggi?»
«Sono in ritardo di quasi due settimane e ho fatto il test». Guardo a terra e poi alzo la testa per scoprire la sua reazione e aggiungo:
«Quando lo abbiamo fato l’ultima volta senza protezione, credevo di essere nel periodo non fecondo, ma devo essermi sbagliata, devo aver sbagliato il conto dei giorni e…»
«E…» Mi fa eco.
«E la lineetta del test si è colorata. Sono incinta». Riesco a sussurrare con un filo di voce.
Alessandro, ancora prima di sposarci mi ripeteva che voleva un figlio subito e, da quando ho scoperto che padre meraviglioso sarebbe stato, lo avrei voluto anch’io ma abbiamo sempre rimandato e aspettato il momento giusto, che di certo non è questo.
«Ed è attendibile?» Chiede.
«Credo di sì. L’ho ripetuto due volte».
Si china e mi stringe in un abbraccio che sa di gioia incontenibile ed io provo a lasciarmi coinvolgere, anche se temo che da qui in avanti tutto sarà più complicato.
«Avremo un bambino. Non ci posso credere, ma è fantastico. Ma tu perché stai così, non sei contenta?» E mi abbraccia ancora più forte.
Non gli avevo detto niente prima proprio per non tenerlo sulle spine e ora, nel cercare di riprendere il controllo, mi irrigidisco e non sapendo che altro dire rispondo.
«Amore, questa è la bella notizia, ma…»
«Ma? Non capisco». E scioglie il suo abbraccio per scrutarmi meglio in viso.
«Ho fatto il test questa mattina, prima di andare al lavoro e Rita, la mia collega, è stata la prima cui ho confidato il risultato e lei, dopo essersi congratulata per la bella notizia, mi ha fatto riflettere perché ha detto: “Non lo potrai tenere nascosto a lungo e lo sai come la pensano qui”. Poi, mentre sollevavo scatole piene di pelati, mi ha guardato dritta negli occhi e ho capito che già quel continuo piegarmi e sollevare pesi, tra qualche mese non sarei più riuscita a farlo».
«E allora?» Ha insistito Alessandro.
«Le ho risposto che lo sapevo, ma che almeno per qualche mese, fino a quando non si noterà la pancia, avrei cercato di mantenere il segreto e non lo avrei detto a nessuno».
«Non capisco. E poi?». Ha insistito.
«E poi? Poi resto a casa. Perché lo sai, con il contratto che mi ritrovo, non potrei mai continuare a lavorare. La ditta preferisce avvalersi di personale che garantisca continuità. Me lo hanno detto e sottolineato chiaramente al primo colloquio».
«Quindi?» Ha chiesto.
«Quindi, ci troviamo di fronte a un bivio, a dover scegliere tra il figlio che porto in grembo o il lavoro».
«E questo sarebbe il problema? Questa la tua preoccupazione?» Chiede.
«Purtroppo sì. Lo so, sarebbe bello ma come facciamo. Lo volevamo da sempre un bambino e ora che ci siamo, non so cosa fare perché tenere il bambino equivale a perdere il posto».
Alzo la testa e guardo il soffitto. Mi ci vorrei perdere in questo soffitto bianco.
Alessandro invece sembra sereno e continua a ripetere:
«Sarò padre. Sarò padre. Avrò un bambino tutto mio». E conoscendolo so già a cosa sta pensando: a quando lo vedrà nascere, a quando lo porteremo a casa, a quando lo cullerà, a quando lo porteremo a passeggio nel carrozzino.
«E allora? Cos’è che non va? Cosa ti preoccupa?» Torna a chiedermi.
«Ma… ma non capisci? Se teniamo il bambino, perdo il posto. Non ci sono altri modi per dirtelo, e la pasticca amara è meglio ingoiarla subito».
«Perché quel se? Daria, nostro figlio vale più di qualsiasi lavoro, di qualsiasi contratto a termine, più della laurea che tieni chiusa nel cassetto. Io non ho dubbi e voglio il bambino. Tu porti avanti la gravidanza e nel frattempo ci verrà qualche idea. Ne parleremo con i miei, con i tuoi e vedrai che saranno felici di poterci aiutare. In qualche modo risolveremo.
«La fai facile tu. Invece penso che tenerlo sia un salto nel buio, perché se provo a immaginare quello che potrebbe accadere, vengo assalita da mille dubbi e paure. Come faremo ad andare avanti e crescere il bambino con un solo stipendio?»
«No. Io la penso in modo diverso. Prima di tutto viene il bambino, poi si vedrà. Nel frattempo potresti fare domanda per la messa a disposizione scolastica. Poi potresti dare lezioni in casa. Non immagini nemmeno quanti ragazzi abbiano bisogno di aiuto».
«Ma io…»
«Calmati, e non precipitare le cose. Dobbiamo solo ragionarci e vedrai che una soluzione la troveremo».
Più parla più penso che abbia ragione e mi convinco che la cosa giusta da fare sia tenere il bambino. Lo abbiamo desiderato tanto e adesso che ci siamo non possiamo tirarci indietro.
Lo guardo smarrita, appoggio la testa sul suo petto e mi lascio accarezzare i capelli.
«Daria, nostro figlio o nostra figlia che sia, varrà pure qualche sacrificio». E mi accarezza la pancia, come a voler sfiorare l’invisibile regalo che il cielo ci sta mandando.
Lo scruto e capisco che lo vuole veramente il bambino, e allora scaccio il pensiero che mi ha tormentato tutto il giorno, abortire, e cerco di assecondarlo.
Un attimo dopo scoppiamo a ridere e siamo felici. Sì, lo terremo il bambino e al diavolo tutto il resto.
Sorrido e penso a quando sarò madre, a quando saremo genitori, e finalmente questo pensiero scaccia le mie preoccupazioni.
Mi sono rasserenata e sono contenta di avere accanto un uomo che non si scoraggia mai, nemmeno davanti alle prove più dure che la vita ci impone. Ed è così persuasivo che mi fa sentire orgogliosa di avere un marito come lui. E anche se la nostra è solo incosciente, sono tornata finalmente serena.
«Grazie per tutte le parole che sai dirmi. Grazie per starmi vicino nei momenti importanti, nei momenti che contano. Grazie per tutto quello che di bello sai trasmettermi». Gli dico e lo abbraccio.
Stringo Alessandro e lo bacio con la sensazione di avere accanto il mio angelo custode.
Mi sento invasa da un sollievo che sino a qualche momento prima nemmeno immaginavo di poter provare. E anche se per tutto il giorno non lo ritenevo possibile, ora alzo la testa e vedo il soffitto colorarsi di un celeste chiarissimo e il mio cuore si riempie di nuove e splendide emozioni.
Le più belle e inaspettate perché, in effetti, non c’è niente di più entusiasmante che aspettare un figlio. E adesso non c’è più nemmeno nessun bivio davanti a noi, nessuna scelta da affrontare.
Sono incinta, ed è una sensazione meravigliosa che voglio condividere con Alessandro, il mondo intero e, tra un po’, anche con i nostri genitori, perché anche loro saranno felici di diventare finalmente nonni.
E al diavolo i pelati, l’insalata e i prodotti dietetici da inscatolare. Al diavolo il lavoro e i contratti burla. Ora ho finalmente qualcosa d’importante cui dedicarmi, cui pensare.
Sarò madre, Alessandro sarà padre, e questo è quello che conta perché, ne sono certa, saremo i genitori di un figlio meraviglioso.



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