Comprensibili le perplessità sul commissario scelto dal governo, lo stesso che fino a qualche giorno fa vestiva i panni dell'amministratore dell'Ilva; in dubbio anche Federacciai, Confindustria e, per ragioni opposte, gli ambientalisti (ma non tutti però)
Un commissariamento temporaneo, essenzialmente ad acta, per ripristinare le normali condizioni operative nel rispetto delle norme a tutela dell'ambiente e della salute. Non è una cosa da poco. Di sicuro un'arma a doppio taglio. Ed è di questo che andrebbe discusso anziché soffermarsi sui dettagli e tantomeno sull'opportunità di nominare Enrico Bondi commissario. Il decreto emanato in tutta fretta, per affrontare quella che di sicuro è una gravissima emergenza, quella determinata da una serie di provvedimenti della magistratura tarantina ai danni del gruppo Riva, introduce un elemento problematico che riguarda la attrattività degli investimenti, e la limitazione di fatto della iniziativa privata. È evidente che si sia in presenza di un totale fallimento di un sistema che coinvolge, insieme alle responsabilità del management aziendale, quelle di chi aveva ed ha il compito del controllo. Al commissariamento non si sarebbe dovuti arrivare, e non si sarebbe arrivati, se avessero funzionato i controlli, che pure sono previsti. Se, anziché andare avanti per anni con il gioco dei tavoli e delle intese; se chi oggi chiede l'allontanamento del gruppo Riva, a suo tempo avesse preteso dall'azienda il puntuale rispetto delle norme, anziché intrattenere rapporti di "reciproca stima"; se non ci fossero state tante componenti del mondo politico, istituzionale, associativo, al servizio del gruppo Riva, come emerge chiaramente dalle indagini in corso, evidentemente non si sarebbe giunti al punto di dover assumere un provvedimento così drastico. Il decreto 61, per il quale ci attendiamo ci sia battaglia in fase di conversione in legge, nasce come compromesso, unico provvedimento possibile per affrontare una situazione di assoluto stallo e di incertezza; «Il giudice competente provvede allo svincolo delle somme per le quali in sede penale sia stato disposto il sequestro», infine lo scopo fondamentale del provvedimento è quello di liberare le risorse sottoposte a sequestro. Risorse che, a dire il vero, non sono state neppure ancora del tutto individuate. Si dice addirittura che solo uno degli 8 miliardi posti sotto sequestro sia stato finora rintracciato. Senza contare che il giorno 11 si pronuncerà il tribunale del riesame di Taranto che potrebbe accogliere il ricorso dei legali dell'azienda e quindi annullare di fatto il sequestro. Ciò che questo decreto, come del resto il precedente convertito nella legge 231/2012, non ha ancora affrontato, è la questione strategica che riguarda il territorio ionico. Si è ben capito da tempo, l'Italia non intende rinunciare alla siderurgia. Questa volontà appare chiaramente diffusa nell'ambito di quasi tutti i partiti, soprattutto in quelli che sostengono l'attuale governo. E allora ciò che va stabilito è, da un lato tempi precisi e risorse per rendere lo stabilimento Ilva davvero ecocompatibile; dall'altro individuare strumenti atti a risarcire il territorio in forma di sostegno per uno sviluppo, a questo punto se non alternativo, complementare, a quello industriale. Insomma una legge per Taranto che stabilisca ad esempio un congruo periodo di defiscalizzazione, completi le infrastrutture, incentivi investimenti ed occupazione. E, invece, in questi giorni continuiamo a leggere di seri problemi che impediscono l'avvio dei lavori per lo sviluppo del porto, su cui tanto si fa affidamento. Il rischio è che ci si distragga dal vero problema per andare dietro a dettagli che, pur importanti, non rappresentano il vero nocciolo della questione. Vedremo cosa accadrà in Parlamento durante la conversione in legge, ma c'è da credere che poco cambierà. Pensare di risolvere una questione così rilevante, che si trascina in pratica da oltre sessant'anni, in poco tempo e sotto la spada di Damocle dei provvedimenti giudiziari, peraltro in un momento di così grande difficoltà per il Paese, è sicuramente utopia. Ci sono poi tantissime altre questioni che è difficile interpretare in assenza delle necessarie informazioni. Ricordiamo però che il gruppo Riva non è proprietario dello stabilimento, ma delle azioni, una parte di azioni, della società che svolge l'attività imprenditoriale. Vendendo le azioni, a prescindere dagli esiti delle azioni giudiziarie, potrebbe cambiare lo scenario, e chissà che qualcuno non stia attendendo che lo Stato ponga rimedio all'attuale situazione di criticità, per poi sostituirsi al gruppo Riva. Potrebbero poi anche esserci altre questioni ancora più complesse che riguardano interessi economici sovranazionali. Insomma oggi diventa difficile esprimere valutazioni. Per certo sappiamo che ora il cerino è nelle mani dello Stato. Incrociamo le dita.