Nella filmografia che ha accompagnato le fantasie della mia fanciullezza sulla nuova frontiera dell’epopea western, vi era sempre un eroe solitario, al limite della asocialità, che affrontando il suo antagonista, cattivo e cinico, gli ricordava che “c’è un tempo per vivere ed un tempo per morire.” Affermazione veritiera che mi riporta ad un altro luogo comune “si vive e si muore una sola volta” e qui, onestamente, comincio ad avere molte perplessità. Non tanto sul fatto che si vive solo una volta, inconfutabile verità finché qualcuno non riuscirà a dimostrare scientificamente la teoria della reincarnazione, quanto sulla unicità dell’evento letale. Attraversando in gioventù il mio periodo esistenzialista, stato dell’animo che soggioga più o meno scientemente i giovani di ogni epoca e di ogni latitudine, mi sono chiesto dolorosamente che cosa sia la morte. Dal punto di vista biologico la risposta è relativamente semplice: è la cessazione di ogni attività biochimica e fisica in un organismo vivente sia esso unicellulare o pluricellulare. Tra le specie animali più evolute è un po’ più articolata perché questa assenza di attività deve avere i requisiti di contemporaneità in complesse aggregazioni cellulari (sistema encefalico, sistema cardiaco, ecc.). Ma per la specie animale più evoluta, l’Uomo, è impossibile inquadrare la morte esclusivamente dal punto di vista biologico per una componente immateriale che lo caratterizza: i mistici la chiamano anima, i laici la chiamano spirito. Da questo punto di vista, la morte biologica di un essere umano è solo una delle morti possibili. Nella storia della specie umana, che conta ormai alcuni milioni di anni, si sono susseguiti molti periodi che convenzionalmente abbiamo identificato con il mondo minerale: l’età della pietra, l’età del bronzo, l’età del ferro, l’età dell’oro. Negli ultimi duemila anni stiamo viaggiando nell’ultimo respiro, in sequenza temporale, di questa storia drammatica ed esaltante allo stesso tempo, che è l’età dei morti viventi. La definizione non vuole mutuare gli stereotipi della letteratura horror, ma focalizzare la molteplicità di eventi luttuosi che accompagnano la nostra vita biologica. Il progresso scientifico continua a dilatare la nostra aspettativa di vita, ma le condizioni sociali in cui si dipana questa vita ha moltiplicato esponenzialmente i decessi dell’anima, o dello spirito. E non sono decessi che si concentrano esclusivamente nell’età senile. Quante volte si può morire nel corso della vita? Si può iniziare a morire molto presto, come accade spesso oggi ai bambini vittime del bullismo dei loro coetanei o vittime della distratta indifferenza di tanti genitori troppo presi dalla quotidianità. Vanno incontro a morte sociale i ragazzi che, più o meno incoscientemente, entrano nel tunnel degli stupefacenti e dell’alcol vittime della ghettizzazione nella quale vengono circoscritti dalla sordità e dalla cecità di chi dovrebbe guardarli ed ascoltarli. C’è la doppia morte spirituale delle donne vittime di violenza che si sentono guardate e giudicate con diffidenza, se non disprezzo, da chi dovrebbe tutelarle. C’è la morte sociale di milioni di giovani che, come fastidiosi questuanti, vengono respinti dal mondo del lavoro. Si può morire come le tante donne che devono rinunciare al loro diritto alla maternità per non essere discriminate nell’altrettanto inalienabile diritto al lavoro. C’è la morte civile dei milioni di uomini e donne che vengono annualmente espulsi dal mondo del lavoro e che quotidianamente devono guardare negli occhi i propri figli ai quali non possono garantire il pasto serale. C’è poi la morte sociale di milioni di anziani, uomini e donne, che dopo aver speso l’intera vita per creare reddito, arricchendo le aziende e salvando il sedere allo stato attraverso le tasse, ricevono pensioni di fame che li costringono a rovistare tra i rifiuti dei mercati rionali o a sfamarsi nelle mense dei poveri, vuoti a perdere di una società che si autodefinisce civile. Potremmo poi parlare della morte spirituale dei disabili, degli immigrati, dei nuovi schiavi sfruttati nei latifondi del Belpaese, ed allargando il diaframma della nostra macchina fotografica sul mondo, degli schiavi bambini impiegati dalle multinazionali operanti in paesi a dir poco permissivi, dei soldati bambini privati della loro infanzia, dei bambini privati del dritto al gioco ed all’istruzione. Riusciamo ancora a provare un po’ di vergogna o pensiamo chela responsabilità di queste morti sia di chi è altro da noi? Si rafforza in me il convincimento che il Principe danese, nella sua lucida follia, avesse trovato una giusta chiave di lettura della vicenda umana: “Essere o non essere, questo è il problema! Se sia più nobile all’animo sopportare i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli. Morire. Dormire. Sognare forse. E con un sonno dirsi che poniam fine al cordoglio ed alle infinite miserie, naturale retaggio della carne, è soluzione da cogliere a mani giunte.”