Le nuove povertà: crisi morale e culturale. Un dialogo in “privato” con il parroco della Chiesa del Carmine di Martina Franca, tra nuove emergenze sociali e valori in evoluzione
Guardare alla crisi economica con una prospettiva diversa può far bene. E’ un modo per esercitarsi a esorcizzare i pregiudizi e la fretta delle condanne che “partono in quarta” sui social network là dove regna il pressapochismo e la scarsità di esperienze dirette – quelle che giustificherebbero le considerazioni poi espresse gratuitamente. Insomma spesso è necessario che le parole vengano sostenute dai fatti. Quando si parla della Chiesa, occorre sorbirsi purtroppo la solita solfa secolarista “anti-talare”; e i soliti riferimenti allo IOR, ai preti americani pedofili ecc. Molti dimenticano invece Don Puglisi, Don Gallo, Don Tonino Bello ecc. Ma anche in questi casi si parla sempre di pastori che hanno avuto la benedizione di trovarsi in prima linea sostenuti dal potere dei mass media (non disconoscendogli un certo carisma, comunque). Certamente Papa Francesco ha nelle sue mani questo enorme potere mediatico che ha portato molta gente a rivalutare con occhio meno severo l’Istituzione della Chiesa. “Finalmente il Papa dei poveri, degli ultimi”, è il solito slogan che si urla, a cui tutti applaudono, a cui molti politici fanno riferimento in malafede per “scaldare il cuore” dei propri sostenitori (be’, siamo comunque una città di provincia con retaggi cristiani), ma sempre con intendimenti triviali riferiti a quel pressapochismo di cui si parlava, perché sembra che la gente abbia bisogno di un Papa che accoglie gli immigrati a Lampedusa, o che parla di povertà estrema, per ri-credere. Magari quella stessa gente che vede Papa Francesco come il “liberatore”, e che fino a oggi non ha mai seguito una messa.
Pochi invece hanno la fortuna di vivere un’esperienza parrocchiale significativa, dove si avverte il senso della comunità, della solidarietà e dove si “vedono alcune cose” (ne testimonia chi scrive, anche se si era promesso di non fare alcuna allusione). Lo sprone è stata un’ipotesi personale: e se anche i preti di provincia fanno del bene concreto, reale, che non si perde dietro gli slogan? Infatti quelle “cose” di cui si parlava fanno riferimento a gesti personali, silenziosi, di grande carità che nessuno conoscerà mai, perché i preti non vanno a chiedere voti.
In fondo il silenzio di quella Chiesa che è viva e vegeta fa suo il motto biblico “fa sì che la tua mano destra non sappia ciò che fa la sinistra”. I lettori di Extra, che sono intelligenti, avranno capito a cosa si fa riferimento. Chi scrive ha scelto Don Michele Castellana, un po’ a caso, un po’ no, per parlare di quella crisi economica che poi solo economica non è, ma anche morale.
Don Michele, quali sono le nuove povertà nel nostro paese e quali difficoltà stanno vivendo le famiglie che spesso “bussano” alle porte della Chiesa?
«Essere preti di frontiera significa lavorare continuamente per far sì che la parrocchia diventi un luogo di riferimento per molta gente. Se si pensa alla povertà in generale, immediatamente il riferimento è alla crisi economica, oggi vistosa più che mai. Tanta gente è in crisi: alcuni si trincerano in una falsa crisi, per altre persone invece la crisi è reale e concreta. Noi preti ce ne stiamo accorgendo: gente che fino a poco tempo fa non s’era mai posta alcun tipo di problema economico, che adesso purtroppo comincia a chiedere alle nostre parrocchie. Ma la povertà è comunque un concerto più esteso».
Lei fa riferimento alle parole di Papa Francesco quando parlava di “crisi morale”?
«Infatti. Il riferimento alla morale rimanda alle modalità con le quali la gente pensa, costruendosi i propri valori e attribuendone un senso del tutto personale. Io ritengo che in generale vi sia una mancanza di riflessione insieme a un’incapacità di relazionarsi con gli altri. Siamo diventati diffidenti l’un l’altro, ci chiudiamo in noi stessi in un senso di incomprensibile riservatezza che si tramuta in una mancanza di fiducia negli altri. Ma non significa che la gente sia tutta così: molta gente riesce ancora a sentire lo spirito comunitario. Ma la società vive, appunto, una paura di fondo: la diffidenza».
Infatti si è più diffidenti nei confronti di quelli che erano gli originari luoghi di aggregazione; si pensi all’oratorio, per esempio.
«Sì, qui in Parrocchia comunque c’è un nutrito gruppo di giovani. Lei comunque ha toccato un punto molto delicato. Stiamo vivendo un mutamento culturale, già iniziato da tempo, in cui le nuove generazioni trovano difficoltà a cogliere i punti di riferimento più importanti: la Chiesa, la famiglia, le Istituzioni e la Politica. Questo cambiamento ha ridimensionato questi riferimenti. Devo dire che la Chiesa sta attuando in questo preciso istante un nuovo tentativo di ricostruire il suo rapporto con la società e i giovani, per annunciare il Vangelo, superando metodologie antiche; si pensi a questo Papa che ha ben compreso la necessità della Chiesa di rinnovarsi sia spiritualmente sia sul versante dei propri comportamenti. Purtroppo si parte da questo dato di fatto: che le parrocchie hanno perso la propria funzione di coagulo sociale. La maggior parte dei giovani non frequenta più la parrocchia, perché i ragazzi sembrano non voler trovare più alcun riferimento. Ma i riferimenti validi ci sono. E questa perdita di fiducia credo stia riguardando anche la sfera politica».
Parliamo delle altre povertà?
«Be’, io sto notando una solitudine imperante. La gente è sola non solo in senso fisico – si pensi agli anziani, ai malati, agli allettati, che soffrono la solitudine – ma mi accorgo che anche nelle stesse famiglie, dove c’è un marito, una moglie e dei figli, vi è solitudine e difficoltà di dialogo. Questa solitudine, che comporta incomunicabilità, influisce sulle scelte di vita».
E si rompono i legami?
«Esatto. Non volendo generalizzare sui motivi validi e altri meno validi che possono portare a una separazione o a un divorzio, il valore dell’impegno purtroppo fa paura. La fragilità psicologica è comunque una componente comune a tutti. Tutti ci sentiamo fragili per le cose che accadono e, senza giudicare chi compie quel tipo di scelte, si assumono impegni che si sa già di non poter mantenere fino in fondo perché la separazione è tenuta in conto ancor prima dell’unione, e mi riferisco alle coppie di nuova generazione».
Tornando alla solitudine, Don Michele, quali potrebbero esserne le cause?
«Io riscontro tantissima solitudine in quelle persone che vivono sulla propria pelle i fenomeni legati al gioco d’azzardo. Sì, quei giochi del tipo “gratta e vinci”, insomma. Quanta gente ricorre a queste forme con l’auspicio che possano risollevarsi! gente con famiglie e stipendi che, per colpa di queste false illusioni, fa mancare alla propria famiglia il necessario per la sussistenza».
La cosiddetta “Ludopatia”?
«E’ una delle nuove facce della povertà attuale. La ludopatia porta non solo a un impoverimento economico, ma anche a problemi di relazione, di rapporti con i figli. Questo è un fenomeno molto particolare che io ho riscontrato in molte famiglie martinesi. Qui nella mia parrocchia ho visto parecchi casi. Ho notato anche molte persone anziane vivere questo dramma: si bruciano la pensione coi “gratta e vinci” (e altri) cadendo in una grave forma di dipendenza psicologica. Ricordo un particolare: una persona anziana deceduta, in condizioni economiche chiamiamole “borghesi” , con figli ecc. Be’, alla morte della madre i figli hanno trovato in casa bustoni pieni di “gratta e vinci”: per i figli fu una sorpresa perché in quel momento conobbero la loro cara madre sotto un altro aspetto. Chissà da quanto tempo spendeva i propri soldi in quel modo».
Vogliamo parlare dell’aspetto propriamente religioso? Del non rispetto del sacro quasi a sbeffeggiarlo?
«Vi è una assoluta mancanza di fiducia in Dio. Tutte queste forme di povertà materiali, psicologiche hanno portato a una sfiducia totale in Dio. La prima realtà da cui la persona in difficoltà si allontana è quella relativa al proprio rapporto con Dio. Tutti però ce la prendiamo con Dio, poi quando le cose vanno male. Chissà perché. Noto però che c’è la ricerca di un nuovo rapporto con Dio e con la religiosità in generale».
In che senso?
«Tutti in fondo ricercano “qualcosa”, ma pensano al rapporto con Dio come un qualcosa di personale, di fortemente intimistico. Una sorta di “me la vedo io con Dio”, un modo di pensare a Dio impropriamente relativistico che non corrisponde al messaggio evangelico. In realtà Gesù ha fondato la Chiesa. Perciò la vera fede in Dio passa attraverso Gesù e la Chiesa. Volenti o nolenti. La Chiesa quindi sta cercando nuovi canali comunicativi per comunicare il Vangelo, che passano attraverso forme di partecipazione diretta. Non si può credere in Dio chiudendosi in casa».
Dobbiamo essere pessimisti, Don Michele?
«Assolutamente no! Anzi, il contrario, nella mia esperienza di parroco avverto comunque un seme di speranza: la gente è alla ricerca della verità, del senso della vita. Ed è una ricerca positiva. Per me, il futuro è pieno di speranza: vi sono ottimi educatori, ma spero prendano nota di questo mutamento culturale che ha dei semi di qualità».
Io uno sfizio me lo devo togliere, anche se Lei non vuole: Lei è molto vicino alle problematiche degli ex detenuti. L’ho saputo. E queste problematiche passano anche attraverso forme di aiuto, diciamo, “dirette”.
«I problemi della gente che ha avuto disguidi con la giustizia partono innanzitutto dallo stigma sociale nei loro confronti. E’ un problema che riguarda tutti inevitabilmente. Trattare gli ex carcerati come “carcerati a vita” anche quando non sono più in galera è una povertà culturale collettiva. Dobbiamo entrare in merito alla vita di ogni singola persona. Devo dire però che la politica, quella locale, riferita alle amministrazioni precedenti e anche l’amministrazione attuale, sono molto attenti alle forme di povertà. Direi più sul versante economico. Ma è già una grande cosa».