Il racconto di un giornalista, figlio di operaio, di una domenica all’Ilva. “Porte aperte” si chiamava l’iniziativa, e tutto sembrava pulito e controllato. Ma la verità, lo sappiamo, è ben diversa
La sveglia suona anche di domenica ma qualcuno addirittura l’anticipa venendo in camera tua e, senza mezze misure, ti esorta a lasciare il letto. Ti lavi, ti vesti, fai colazione. “E’ tardi, muovetevi” dice tuo padre rivolgendosi a te, a tua mamma e a tua sorella. “L’appuntamento è alle 11 e là non è che aspettano a voi. Quelli iniziano senza di noi”. Io lo guardo, accenno un sorriso, e gli spiego che non deve timbrare il cartellino. Ma lo capisco. Mio padre l’ha timbrato per 33 anni. Il laminatoio a freddo lo conosce meglio dei suoi figli. L’azienda per lui veniva prima della famiglia. Mi ricordo ancora il telefono quando squillava il pomeriggio: “Corigliano? Alle 19 a lavoro”. Non c’era bisogno nemmeno di dirlo a mio padre. Lui aveva già capito. Così ha visto i suoi figli crescere tra un primo, un secondo e un terzo turno. E poi gli straordinari. Quanti straordinari per la sua azienda. “Papà è il numero uno in reparto, è capace di risolvere casini che neanche gli ingegneri sono capaci” mi hanno sempre detto i suoi colleghi. Di quella squadra di lavoro adesso sono vivi solo lui e un altro suo collega, guarda caso il mio compare di battesimo. Angelo però combatte contro una malattia neurodegenerativa. Tutti pronti e alle 10.30 siamo in macchina: direzione Ilva di Taranto. Oggi vedremo l’interno dello stabilimento grazie al progetto “Porte Aperte”. “Papà dov’è la portineria C?” gli chiedo. “La portineria C è dopo quella D se andiamo da Statte. Quindi se ti muovi arriviamo per tempo!” replica lui agitatissimo. Sembra uno scolaretto al primo giorno di scuola. Io dell’Ilva conosco solo gli uffici dove ogni anno assisto alla presentazione del “Rapporto Ambiente e Sicurezza”. Puntualmente, il giorno dopo la pubblicazione del mio articolo, arriva la telefonata a casa: “Coriglia’, ma tuo figlio ci vuole far chiudere?” E lui, prima fa spallucce, aggrotta la fronte, e poi: “E’ dagli anni ‘70 che si sapevano queste cose. Lo sapete tutti che inquiniamo” e scoppiano a ridere. Finalmente arriviamo a destinazione. Qualcuno con addosso un giubbotto blu marchiato Ilva ci dà il benvenuto e con uno smagliante sorriso ci indica dove lasciare l’auto. Adesso però il teso sono io. Da oltre 3 anni scrivo di inquinamento, di ambientalisti che quella fabbrica proprio non la vogliono, di politica e di provvedimenti legislativi regionali e statali per combattere l’inquinamento a Taranto. Non so cosa troverò all’interno della fabbrica delle polveri e dei fumi. So solo che pochi mesi fa ho dovuto scrivere di una perizia richiesta da un Gip la quale afferma che quella industria provoca malattie e morte. A seguito di quella perizia sono scesi in piazza 8mila dei 12mila lavoratori per scongiurare l’eventuale chiusura. Insomma una città spaccata a metà. All’ingresso ci accolgono delle graziose ragazze alle quali concedo un sorriso. Non sfugge a mia sorella che mi fulmina con lo sguardo. “I signori si sono prenotati. Ecco a voi i pass. Buona giornata”. Sorprende la gentilezza e la cortesia con cui quelli con la tuta écru ti accolgono. “Mi sento come se fossi a casa mia” dice mia sorella. Difatti il clima è quello. Sembra un giorno di festa. I bambini che giocano, ridono e corrono con gli animatori in uno stand tutto per loro mentre i genitori sono a fare il tour che durerà circa 90 minuti necessari per vedere il ciclo dell’acciaio. Non so perché ma mi si presenta un flash back nella testa: alcuni bambini non proprio contenti, anzi per nulla. Occhi spenti, sguardo nel vuoto. Qualcuno di questi accenna un timido sorriso. Un clown, uno dei cosiddetti “dottor sorriso”, con una gaffe cerca di tirare su il morale a chi lotta tra la vita e la morte in un letto di ospedale per un tumore o una leucemia. Alle 11.30 tocca a noi. Saliamo su uno dei 5 bus, il numero 46 proprio il primo, pronti per il giro all’interno della fabbrica. “Hai visto quanti bambini ci sono anche qua?” dice mia madre. Effettivamente il pullman di oltre 55 posti è formato da famiglie accompagnate anche da nonni e nonne. L’uomo che ci farà da Cicerone non ha un accento tarantino: “Come avete notato sono di Lecce ma mi sono trasferito per lavorare in questa azienda. Ho portato qui la mia famiglia per stare vicino al mio lavoro”. L’Azienda. I lavoratori Ilva la chiamano con questo nome. L’azienda è nel suo racconto sempre presente. L’azienda fa questo, l’azienda fa quello. L’azienda ha investito 5milioni di euro per l’ambientalizzazione. L’azienda ha i macchinari che rispettano le migliori tecnologie disponibili. L’azienda investe per il futuro. La sfida dell’azienda… e così via. Mi sembra di sentire ancora i litigi tra mio padre e mia madre: “A te l’azienda può chiamarti alle 3 di notte e tu sei capace di lasciare dove hai e di andar via.” Partiamo. Tutto è incentrato su come viene fatto l’acciaio. L’acciaio di Taranto. “Milioni di tonnellate di acciaio” . Servono oltre 21 milioni di tonnellate di carbon fossile, quello di colore nero, e minerale di ferro, quello rosso, per produrre 10 tonnellate di acciaio. Noi ci passiamo in mezzo a queste montagne di materie prime alte 15 metri. Mostruose, spaventose, affascinati, eccezionali. Il nostro bus è investito da una serie di getti d’acqua che servono per evitare lo spolveramento. “Giovane lo vedi questo? È di colore rosso. E questo che è di colore nero, lo vedi? Grazie all’Ilva ogni santo giorno noi lo respiriamo”. Mi viene in mente la quantità abnorme di minerale che le donne del rione Tamburi raccolgono sui loro balconi al mattino e quello che portano in casa dopo aver ritirato i panni stesi al sole la sera. Il nostro Virgilio passa poi all’impianto di agglomerazione e così via fino alla formazione della prima bramma che vediamo da vicino. Forse la fase più emozionante della visita. La guida, appena vede la colata di ghisa di un rosso acceso, si agita. Non ci sta nella pelle. Abbandona il suo posto a sedere e la racconta in piedi facendo trasudare fortissime e intense emozioni. La vive sulla sua pelle quella colata. E come se una parte di se stesso si staccasse dal suo corpo. A pochi passi dalla bramma incandescente il calore ci investe in pochissimi secondi. “Signor Carlo, lei ha un angioma. E’ un tumore benigno non si preoccupi. Guarirà”. Prima di entrare nello studio del medico quella mattina Carlo era teso, sudava, eppure faceva freddo in quella stanza. La moglie lo rassicurava stingendogli forte forte la mano fino a fargli diventare i polpastrelli violacei. Tutto il racconto non fa una sbavatura. Si parla di materie prime naturali che come per magia, una sorta di alchimia, ci dice l’uomo in blu, diventa ferro. Io ad un certo mi chiedo “Antone’, e l’inquinamento?” Tutto pulito. Tutto controllato. Mai un accenno a un fumo, a un semplice sbuffo di qualche camino. Mai un cenno a un sottoprodotto dannoso o pericoloso. Anzi dice: “L’acciaio è come il maiale. Non si butta via nulla. Rivendiamo tutto quello che è il sottoprodotto che serve per fare asfalti, cemento, eccetera”. Mai che ci parli di sostanze inquinanti. Sembrerebbe che tutto questo non abbia a che vedere con la produzione dell’acciaio. La visita finisce. Avanti a me una giovane mamma chiede al figlio : “Hai visto dove lavora papà? Ti piacerebbe lavorare qua?” Il piccolo scuote ferocemente il capo facendo muovere i capelli tagliati a caschetto. “No!” La mamma ride e se lo abbraccia. Papà è di fronte a me. Non serve che gli chieda come è andata la visita dopo 9 anni di assenza dalla sua azienda. Parla con un responsabile e gli confessa che molte cose sono cambiate in 9 anni. L’azienda la vede migliorata. Ma appena domanda di quel caporeparto e capoturno gli occhi si abbassano al suolo. Mi fa cenno con la testa che per oggi la visita è terminata. In macchina durante il viaggio di ritorno nessuno di noi commenta il tour. Ma nella mia testa riecheggiano le ultime parole della nostra guida “Non so se avete mai visto quelle pietre dei muretti a secco nelle campagne. In quelle pietre ci sono incise le conchiglie, i fossili. Io mi sento parte di questa terra e di questa azienda esattamente come quella conchiglia fa parte di quella pietra. Sono orgoglioso di lavorare per la mia azienda.”. Già, Taranto convive da 50 anni con la sua conchiglia. La stessa che alcuni vorrebbero spingere ancora di più nella pietra ma che altri, battendosi per la salute e l’ambiente dei tarantini, cercano di rimuovere a tutti i costi.