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Angela Castagna/Liberi di spiccare il volo

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

14
SET
2012

 

La scoperta di un figlio portatore di sindrome di Down per molte persone rappresenta l’inizio di un cammino nuovo e pieno di difficoltà. Parla la Presidente dell’A.M.A.R. Down, un’associazione che aiuta ragazzi e famiglie nella gestione delle piccole grandi sfide di ogni giorno
 
Nel 1886 Langdon Down scoprì per primo la “Trisomia 21”, comunemente conosciuta come “Sindrome di Down”: si tratta di un’anomalia genetica dovuta alla presenza di un cromosoma in più, nella coppia di cromosomi classificata col numero 21. Una sindrome tra le più frequenti che provoca una disabilità caratterizzata da un variabile grado di difficoltà nello sviluppo mentale, fisico e motorio, ma che non intacca minimamente la dignità di questi bambini: persone come tutti gli altri. Dico questo perché la storia è piena di parentesi buie e negative e spesso si è macchiata di errori, orrori, pregiudizi e ingiustizie commesse contro chi per nessuna ragione al mondo meritava di scontare il male di menti diaboliche e spietate. Cancellare il passato è impossibile, dimenticarlo non è giusto, perché è da lì che dobbiamo ripartire attraverso un amore sincero per il prossimo. Angela Castagna, presidente A.M.A.R. Down, Associazione Martinese Autonoma Ragazzi Down, da quasi dieci anni è radicata in una realtà fatta da numerose famiglie che si impegnano duramente per garantire una vita felice e serena ai loro piccoli ragazzi portatori di sindrome di Down. Non è facile digerire la consapevolezza che ancora oggi ci sia qualche segnale di emarginazione, ma basta lo spazio lasciato da una piacevole intervista per scoprire che la vera forza del volontariato vive ancora e che anche per quei piccoli bambini, sensibili, sinceri e spontanei come nessun’altro, c’è un mondo pieno di speranza.
 
Sig.ra Castagna, quando e come nasce l’A.M.A.R. Down?
«L’associazione è nata nel 2003 ed è stata voluta da un forte gruppo di quattordici famiglie che si incontravano spesso tra di loro, legate tutte da uno stesso filo conduttore. Dopo aver preso informazioni a livello nazionale, abbiamo deciso di costituirci in forma autonoma per realizzare un punto di riferimento per tutti coloro che avessero bisogno di informazioni e di supporto, perché molto spesso accade che nemmeno gli operatori sanitari abbiano tante conoscenze e per le famiglie che vivono queste situazioni è fondamentale avere dei consigli giusti, sia per sapere a quale strutture o uffici rivolgersi per tutte le richieste di invalidità, sia per quanto riguarda l’aspetto psicologico e l’accettazione di una condizione nuova e diversa. In questo modo, invece, attraverso una vera e propria associazione, abbiamo una sede, dei contatti, delle conoscenze e soprattutto l’esperienza di tante famiglie che in questi casi è fondamentale».
 
Prima che nascesse l’associazione a chi potevano rivolgersi le famiglie a cui nasceva un bambino Down?
«Prima della nascita dell’associazione si andava alla ricerca di famiglie con ragazzi Down più grandi, che potevano consigliarci meglio, perché con più esperienza, talvolta senza sapere nemmeno a che porta bussare. Diciamo che ciò che ha più bisogno di assistenza è l’aspetto psicologico. Quando nasce un figlio Down  non sai che futuro ti aspetta, se ha bisogno di alcune cure in particolare, di stimoli in più, se è necessario che faccia riabilitazione, perché in fin dei conti, nemmeno il personale sanitario è capace di darti delle informazioni: appena nasce il bambino, ti accennano che può esserci la probabilità che abbia la sindrome di Down, perché loro lo deducono da alcuni aspetti somatici, ma ti dicono di rimanere tranquilla perché sarà l’esame del cariotipo a darne conferma. Passano almeno due settimane, a volte anche tre e ti assicuro che sono le più lunghe della tua vita, e arriva l’esito che accerta che si tratta di sindrome di Down. A quel punto torni a casa e sei da solo, non c’è nessuno che ti accompagni in questo percorso e quando vai dal pediatra lo noti anche in imbarazzo mentre osserva la cartella clinica e raramente sa indicarti cosa fare o a chi rivolgerti. Fortunatamente adesso, però, le cose sono un po’ cambiate e ci sono parecchi centri di nascita che consigliano sin da subito di rivolgersi a delle associazioni: noi siamo stati chiamati in più luoghi, a volte ci siamo recati in reparto, altre volte siamo andati a casa da questi genitori e siamo contenti di aver fondato una realtà solida che a oggi conta ben trentuno famiglie».
 
Siete diventati il punto di riferimento che è sempre mancato.
«Sì, il nostro scopo è quello di offrire consulenza e supporto psicologico alle famiglie dove nasce un bambino Down, di promuovere il volontariato rivolto alla disabilità, ma soprattutto sensibilizzare all’integrazione di questi ragazzi in tutti i campi sociali, tramite il coordinamento tra le diverse istituzioni. Non vogliamo in nessun modo sostituirci ad altri enti educativi o riabilitativi».
 
Queste sono le linee guida del vostro impegno, ma ci sono anche parecchie attività che svolgete con i ragazzi.
«Tutte le attività che svolgiamo sono finalizzate principalmente al consolidamento del rapporto che c’è tra di noi. Il lunedì c’è il laboratorio creativo durante il quale ci occupiamo di decoupage, origami e realizziamo anche altri prodotti che spesso ci chiedono per bomboniere solidali e in quel caso la nostra priorità è che tramite quel piccolo oggetto, possa arrivare un messaggio nelle case di tutte le famiglie; il martedì e il mercoledì c’è il massaggio shiatsu, una pratica che si è rivelata molto interessante perché dona un sano equilibrio psico-fisico e giova a tutti, e infine il giovedì ci si incontra per il ‘Club dei ragazzi Up’: abbiamo scelto questo nome per contrastare l’uso inappropriato che a volte si fa del termine ‘Down’ come a voler indicare dei ragazzi inferiori rispetto agli altri, mentre ‘Down’ è solo il nome della sindrome che li caratterizza. L’idea di questo club nasce perché con l’adolescenza i nostri ragazzi iniziano a vivere delle situazioni un po’ delicate: avvertono la voglia di uscire, di incontrarsi per andare al cinema o per mangiare una pizza, così in questo modo diamo loro la possibilità di avere una comitiva e un gruppo di amici con i quali incontrarsi e avere una vita sociale. Ciò che nasce da questi incontri è sempre molto vario e rispecchia i loro desideri, infatti, da qui è partita la voglia di andare a vedere il concerto di Amici, di andare al circo, di andare a ballare, a seconda delle loro iniziative ci organizziamo. Ci tengo a precisare che le nostre attività sono aperte a tutti e ovviamente lasciano i nostri ragazzi liberi di fare quello che vogliono a seconda delle loro scelte e attitudini».
 
Parla di integrazione e di opportunità, ma a volte i vostri ragazzi avvertono un po’ di emarginazione?
«Sì, avvertono che c’è un po’ di emarginazione nei loro confronti, ma in quelle situazioni noi cerchiamo di sdrammatizzare o di proporre altri esempi di persone che pur non affette da sindrome di Down, vivono realtà di irrealizzazione personale nel campo del lavoro o in altri settori. Ciò che più li ferisce è che spesso durante le fasi di crescita della loro vita si sentono esclusi anche un po’ a scuola, quando i loro amici si incontrano per uscire e loro non vengono chiamati: questa è una delle ragioni per il club di cui parlavo prima».
 
Un ragazzo Down è abbastanza autonomo o necessita di attenzioni costanti?
«Le persone con sindrome di Down non sono persone malate, ma possono più facilmente incorrere in problemi di salute, per questo li teniamo sotto controllo facendo degli screening a livello preventivo, ma non c’è niente che comprometta la loro autonomia: il problema di salute è invalidante e quello può colpire chiunque. Tutti raggiungono una buona autonomia, anche se poi è chiaro che per compiere le azioni di vita quotidiana è sempre necessaria una sorveglianza in più. In questi anni mi è capitato di vedere esperienze di ragazzi che vivono da soli, di coppie che convivono: le famiglie a volte accettano di soddisfare il loro desiderio di indipendenza, più che altro per non alterare il loro equilibrio psicologico, perché in caso contrario possono verificarsi fenomeni di depressione. Per ognuno di noi arriva il momento di spiccare il volo e in alcuni casi è bene che questi ragazzi abbiano le loro possibilità, pur rimanendo sorvegliati: in alcuni paesi questa opportunità viene data grazie al controllo di personale specializzato».
 
Quanto è difficile per una famiglia accettare la nascita di un bambino affetto da “Trisomia 21”?
«Jerome Lejeune diceva che “il più grande male di questi ragazzi è la loro famiglia”. Purtroppo alcuni genitori si fermano alle apparenze, agli stereotipi, agli aspetti negativi e difficili, ma non guardano al loro bambino considerando i suoi desideri e le sue capacità. Molti ragazzi Down lavorano e portano avanti il loro compito egregiamente, altri si sono anche laureati, ovviamente però non si deve nemmeno fare l’errore contrario di pretendere che il proprio figlio consegui a tutti i costi un titolo di studio solo per riscattarsi: dobbiamo immaginarlo grande e vederlo per quello che è, dandogli la possibilità di sfruttare le sue doti e le sue qualità».
 
In situazioni come queste, uno dei problemi maggiori è rappresentato dall’incertezza di un futuro, minacciato dalla possibilità che questi ragazzi, venuti meno i loro genitori, possano rimanere da soli. Come si affronta questa incognita?
«Non so rispondere a questa domanda, è un pensiero che spesso mi attanaglia, ma di sicuro non posso trascorrere una vita intera a interrogarmi e farmi problemi, vivo alla giornata quello che mi è stato dato e spero che in un futuro ci sarà qualcuno ad aiutarmi, d’altronde arriva per tutti il momento in cui le forze vengono meno. Ciò che più mi conforta è che in vita mia, non mi è mai capitato di vedere un ragazzo Down abbandonato per strada. Qui da noi c’è un ragazzo che dopo la perdita della mamma è stato preso a carico dai fratelli e per lui è stata come una rinascita, perché adesso con la scoperta dell’associazione fa tante esperienze nuove che prima non faceva perché la mamma era anziana. Non dobbiamo dimenticare che in questi casi alcune persone finiscono anche in diversi istituti, ma anche lì alla fine non si è mai soli e comunque non mancano cure e attenzioni».
 
Essendo un’associazione di volontariato, a livello economico come riuscite a sostenervi?
«Siamo partiti autofinanziandoci e poi col tempo alcuni privati ci hanno beneficiato con delle offerte, così come dimostra anche il locale dove svolgiamo le nostre attività, che abbiamo avuto in dotazione da una famiglia che ci rinfranca dalle spese dell’affitto: un aiuto che per noi fa davvero la differenza, dal momento che, essendo molto numerosi, quel locale serve per svolgere le nostre attività. Inoltre qualche anno fa ci siamo iscritti al 5 per mille e in questo modo abbiamo potuto avanzare qualche progetto in più come la possibilità di avere un incontro con una psicoterapeuta oppure un weekend a Policoro al centro velico, grazie al quale i ragazzi hanno avuto la possibilità di stare qualche giorno lontani da casa».
 
Quali progetti futuri ci sono sull’agenda dell’associazione?
«Nel 2013 celebreremo i primi dieci anni di lavoro, mentre a ottobre aderiremo alla Giornata Nazionale indetta dal CoorDown che coordina più di cento associazioni in tutta Italia. Per quanto riguarda Martina Franca, facendo parte del CAV,  Coordinamento Associazioni Volontariato, c’è il progetto di realizzare, grazie alla collaborazione del Comune, un albo dove siano elencate tutte le associazioni che possano essere utili alla cittadinanza, e la volontà di costituire una consulta per il volontariato, strutturata in incontri specifici per quanto riguarda la conoscenza degli handicap e in incontri più generalizzati a proposito delle associazioni di volontariato. Le nostre richieste sono state subito accolte e condivise e nei prossimi giorni ci incontreremo per definire meglio le procedure da seguire: l’obiettivo è quello di renderci utili alla comunità, attraverso una maggiore conoscenza delle nostre attività. Il 12 settembre ci sarà una giornata informativa aperta a tutta la cittadinanza in collaborazione dell’A.I.D.A, del Centro Servizi di volontariato di Taranto, del CAV di Martina Franca, in occasione della quale abbiamo invitato l’avv. Salvatore Nocera, vicepresidente della FISH,  Federazione Italiana Superamento Handicap, che ci aiuterà a programmare un lavoro di intesa tra associazioni, istituzioni e enti pubblici, alfine di stabilire quali possano essere gli interventi più giusti nel nostro paese. Infine, stiamo mettendo a punto la stampa di un opuscolo informativo che sarà distribuito nei centri nascita e accoglienza dei bambini: un modo alternativo per raggiungere le famiglie a cui nasce un figlio con sindrome di Down».
 
Di cosa ha bisogno fondamentalmente, un bambino Down?
«Di una famiglia che lo ami e lo faccia vivere in un clima sereno, ma anche di un’opportunità in più dal punto di vista dei servizi sanitari, dell’istruzione scolastica, dell’inserimento lavorativo e di essere trattato come persona in tutti i luoghi che possa frequentare».
 


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