Una docente scoraggiata si chiede cosa le stia succedendo. Dal racconto di questa esperienza, una riflessione sul malessere di un’intera categoria professionale.
Dottore quando mi capita il giornale tra le mani leggo con interesse la sua rubrica. Io sono una professoressa di scuola superiore. Scoraggiata. I ragazzi sono poco ricettivi ed io, a furia di stare con loro, sono scesa di livello. Vorrei qualcosa di più, mi piacerebbe che a scuola si potesse fare cultura… invece, sono incastrata in una situazione purtroppo molto misera. Tutto questo mi fa stare male. La ringrazio per l’attenzione. Spero che mi risponda.
Una docente scoraggiata
Il suo conciso resoconto evidenzia un profondo divario tra aspirazioni e realtà percepita. Sembra, infatti, che il suo desiderio di promuovere un discorso elevato («mi piacerebbe che a scuola si potesse fare cultura») si scontri con una realtà scolastica, a suo dire, «molto misera», in quanto costituita da «ragazzi poco ricettivi», alla cui frequentazione lei imputa, per giunta, il fatto di essere «scesa di livello».
Di certo, questa sua breve descrizione tratteggia, per sommi capi, una problematica assai comune: sovente capita appunto che persone molto idealiste subiscano il contraccolpo di una realtà lavorativa non proprio corrispondente alle loro aspirazioni, frustrate dalla convinzione di non poter conseguire, con le risorse disponibili, gli obiettivi programmati. E, per far fronte a questo malessere lavorativo, al nervosismo e all’ansia che esso comporta, la persona coinvolta può, in tali frangenti, mettere in atto un distacco difensivo dal proprio lavoro: può prenderne le distanze nel tentativo di soffrire meno, sviluppando in molti casi un vero e proprio sistema ideativo di difesa, una sorta di corazza mentale improntata sul cinismo più disfattista. Ciò, ovviamente, finisce per ripercuotersi sulla qualità della prestazione lavorativa, che diviene fredda, meccanica e insoddisfacente, sia per il destinatario del servizio che per il professionista, oltretutto sempre più demoralizzato dal calo di rendimento derivante da questa condizione.
D’altronde, mi preme far notare come all’origine di questo meccanismo perverso ci possa essere un semplice equivoco. Nel suo caso sembra che lei abbia, per certi versi, sovrastimato l’entità del suo servizio e dei destinatari di esso. Risulta logico che a chi intende «fare cultura» a scuola, i ragazzi – magari non ancora del tutto pronti – sembrino «poco ricettivi». Dunque bisognerebbe invertire i termini del problema: partire proprio dai ragazzi, valutarli in maniera quanto più oggettiva possibile, quindi approntare di conseguenza una normale azione didattica, perché, d’altronde, se gli alunni fossero già formati, già pronti per la cultura, non ci sarebbe di certo bisogno degli insegnanti. Non le posso nascondere che lavorare con i ragazzi risulta anche più impegnativo che «fare cultura»: il primo compito richiede, infatti, un ripensamento continuo della professione, che passa innanzitutto attraverso l’approfondimento delle problematiche concrete in cui man mano ci si imbatte.
In ultima analisi, le consiglio di riesaminare il giudizio sulla scarsa ricettività dei suoi alunni, a prescindere dal fatto che lo stesso possa risultare vero o falso. Capita, infatti, che una convinzione preconcetta possa da sola innescare una serie di processi tendenti alla sua realizzazione: se una cosa viene ritenuta reale, diviene reale nelle sue conseguenze, a maggior ragione se a ritenerlo è proprio chi gestisce quella data cosa.