Con il suo spettacolo “Urge” l’attore ci spiega che la cultura dobbiamo ingoiarla e non solo usarla come colluttorio, che si vota tutti i giorni già davanti alla tv e che anche la lumaca può essere velocissima, ma solo se ha fatto “voto di vastità”
Le sue frasi assumono altri significati solo per una questione di punteggiatura, oppure se si osserva il loro significato da un punto di vista diverso dal solito, come un giaguaro che diventa uno degli animali più lenti se è in ascensore, o come una lumaca che diventa uno dei più veloci se è in aereo. Lo stupore della scoperta può essere fragoroso, perché bisogna andare oltre, oltre quello che ci è di fronte, oltre quello che ci dicono, che ci fanno studiare e vedere, la “vastità” è importante; perché essere uomo se prima si può essere donna, bambino, animale o cosa?! L’ignoranza è biadesiva secondo lui, si attacca a tutte le cose, quindi “Urge” avere una visione pluridimensionale, ma prima urge una chirurgia etica. Non stiamo parlando di un invasato, ma di un comico, nonché artista, scrittore e attore, che oltre a far divertire, fa soprattutto riflettere.
Cosa urge ad Alessandro Bergonzoni?
«Urge grandezza, semplicità, urge smettere di accontentarsi di quello che viene dato, urge eliminare gli esempi, gli esempi dobbiamo essere noi, urge alzare il livello di guardia. In un tempo di guerra antropologica come questo, dobbiamo capovolgerci; non si può pensare che le canzoni di San Remo siano momenti poetici, anch’io sono capace di cucinare due uova, ma non sono cuoco né lo sarò mai. Bisogna stare attenti perché i poeti e i filosofi sono altrove, così come anche l’intelligenza e la forza; se ci interessa dobbiamo andare a cercare tutto ciò, ma ci interessa? Ecco qual è il problema!».
Lei parla anche di “voto di vastità” nel suo spettacolo, cosa rappresenta?
«”Voto di vastità” sta nel non accontentarsi di quello che sembra bastare. Concetti come violenza sulle donne, maltrattamenti, carcere, malattia, gioie, sono tutti temi che io chiamo “giambici”, non nel senso di metrica, piuttosto intendo l’aereo Jumbo: si tratta di concetti che quando ci investono ci travolgono come dei jumbo. Le nostre piste d’atterraggio sono cortissime e creano problemi, quindi bisogna allungarle, il che significa metaforicamente allargare i nostri orizzonti per far atterrare gli aerei: l’aereo della morte, della vita, della paura, del disagio. La vastità è tutto questo ed è bene riuscire a comprenderlo, altrimenti chi ci ha voluto gassare sta riuscendo perfettamente a intossicarci, per cui restiamo bloccati su qualsiasi argomento, se si parla di sesso o alla battuta sul gay. Credo che in un’epoca di rivoluzione conti molto la rivelazione, conta molto di più la manifestazione interiore che quella di piazza; bisogna manifestare la propria anima, ma le anime mancano, ecco perché siamo arrivati a questo punto».
Il suo spettacolo parla di differenza tra sogno e bisogno, cosa significa?
«La malattia del sogno è continuamente menzionata, parlano tutti di sogni; dicono che bisogna sognare di più, ma la malattia grave è che i sogni non sono altro che velleità, desideri. Il sogno è un lavoro profondo sull’incommensurabile, sull’impossibile, nel sogno bisogna lasciarsi andare a delle cose che nemmeno si immaginano. Cosa si sogna? L’auto, la ragazza, il televisore. I bisogni, le urgenze, le necessità, sono altre cose: noi confondiamo i bisogni con i sogni, è questo il punto».
C’è un punto di incontro tra il suo filosofeggiare e il linguaggio poetico, che sembra in netta antitesi?
«Il lavoro dell’artista è il mettersi a disposizione di, attraverso il suo spettacolo o la propria mostra di opere. Quando torno a casa dopo lo spettacolo, il mio lavoro non è finito, non devo pensare di aver fatto il mio dovere, la stessa cosa vale per il chirurgo quando ha finito di operare; è lì che comincia un altro lavoro, il ponte, la poetica esattamente. Il problema è che noi leghiamo la poetica agli artisti che sono morti e la pratica a chi gestisce e amministra il nostro quotidiano, ma in questo momento ciò è fuori completamente, il letterato deve essere matematico, l’artista deve essere bellico, altrimenti si compie solo un quarto del lavoro, è una questione antropologica più che politica. Prima ho parlato di rivelazione, il che significa che non basta più vedere Benigni che ci legge la Divina Commedia e restiamo compiaciuti, questa è cultura colluttoria, il che vuol dire che ci sciacquiamo la bocca con Dante e poi sputiamo; ma quando cominciamo a mandar giù? Quand’è che creiamo quel ponte? Con la conoscenza, con la consapevolezza, con la coscienza, ma la conoscenza interessa a qualcuno in questo momento? Ora è tutta comunicazione, è importante il modo, la tecnica con cui si comunica, non “cosa” si comunica. Il lavoro teatrale è anche quel lavoro che si fa nelle scuole, negli asili, nelle carceri a raccontare la vita; tutto è arte, la natura è arte, anche il cibo lo è».
Quindi l’arte abbraccia tutti i temi e le discipline?
«L’arte è dentro i temi, anche quando stai raccontando a un bambino il tema della vita e della sessualità, non è artistico in quanto operazione, ma muove dei temi artistici. Io credo che l’arte possa dare un’impostazione diversa al tema della conoscenza: senza dolore non c’è conoscenza si usa da noi, lo dice anche la Chiesa, ma con l’arte prima di provare il dolore si ha la possibilità e la competenza di immedesimarsi negli altri. Madre Teresa di Calcutta non era una lebbrosa, ma attraverso un’energia interna aveva capito che c’era da fare di più. Cosa ancora ci devono raccontare gli altri, i poeti, i filosofi, i politici? Siamo noi i poeti, i filosofi e i ministri di noi stessi: io voto tutti i giorni, ogni volta che vedo una persona morire voto, ogni volta che decido di vedere un cretino in tv, anche solo per distrarmi, sto votando. Si vota 360 giorni l’anno. Non è faticoso scegliere, credo che sia molto più faticoso subire tutto ciò: la trasmissione di cucina, il gioco a indovinelli, la fiction, è molto più faticoso tutto questo che fare un’operazione di scelta».
La soluzione quale potrebbe essere?
«La gente continua a chiedere, basta, la soluzione ce l’abbiamo dentro, si è pieni di soluzioni; non si può fare una rivoluzione se continuiamo a fare ciò che ci dicono. Le risposte ci sono. Non è solo un tema politico come fanno credere, è una questione di vivibilità: l’artista racconta i mondi diversi, per esempio che ci sono persone senza mani ma riescono a suonare il piano , la vastità appunto, ma queste cose si conoscono, sono diffuse».
E’ vero queste cose si conoscono, ce le hanno già dette, ma a volte non si vogliono sapere.
«Certo, se si vota quel leader è perché si decide che lui faccia il lavoro per gli altri; gli demandiamo le nostre azioni. Quand’è che ci interessiamo alle cose e le facciamo nostre? Solo per disperazione, allora sì che si trovano le soluzioni; ma bisogna avere una figlia femmina per preoccuparsi della violenza sulle donne? O un figlio di 16 anni per preoccuparsi che usi il casco sul motorino? O interessarsi del tumore il giorno in cui ci ha colpito? Non funziona così. Bisogna ingigantirsi, ma non nel senso di diventare famoso e ricco, io parlo di un’altra grandezza, di una grandezza divina, di sovraumano: noi siamo dei pezzi divini ad altissima potenza, è provato. E’ la nostra potenza la risposta alle nostre domande. Zanardi (corridore automobilistico che perse le gambe in un incidente) era già potentissimo nella sua professione, poi lo è diventato sempre di più, si è rivelato quello che è, ovvero capace di poter riuscire a vincere anche senza gambe. La rivoluzione comincia dentro di noi».