Si può definire vita quella tenuta sul filo dell’accanimento terapeutico? Proviamo a dare una risposta - anche giuridica -, tra etica e scienza, coscienza e religione, falso buonismo e ipocrita intellettualismo
lo ius vitae necisque (diritto di vita e di morte) ponderante presenza ancestrale in tutte le epoche, civiltà e società, ha da sempre affascinato ed incuriosito, ma, nel contempo, anche spaventato e diviso, sotto il profilo etico, filosofico, morale, religioso, oltre che giuridico e politico. Attorno allo stesso, atavicamente, aleggiava un fumus di misticismo e sacralità, appannaggio delle sole Divinità che muovevano come marionette sullo scacchiere dell’esistenza le sorti degli inermi umani. Dalla spirituale e sacrale “deità” si è passato alla più materiale e blasfema “potestas” dei pater familias, piuttosto che dei signori e padroni, diritto esercitato da parte dei soli uomini liberi e di sesso maschile sui soggetti a costoro sottoposti. Tale dibattuta tematica, annoverabile tra quelle di maggiore interesse sul piano concettuale, è oggigiorno di grande attualità. Infatti, non si può, certamente negare che in molti, soprattutto a seguito dei recenti (e non) casi di cronaca: Eluana ENGLARO, Piergiorgio WELBY, piuttosto che di Lucio MAGRI, Mario MONICELLI, DJ FABO, ovvero, del neonato Charlie GARD, non si siano più volte, o almeno una, interrogati sul diritto, dovere e/o necessità, in taluni estremi casi, di porre fine alla propria vita piuttosto che a quella d’altri, magari, proprio di persone care o di prossimi congiunti. Il dibattito moderno incentrato sul dicotomico diritto alla vita, o alla morte, ovvero sull'eutanasia, quanto sull’accanimento terapeutico, tra etica, scienza, coscienza e religione, sotto la macroscopica lente di ingrandimento della pubblica opinione, divisa tra falso buonismo, ipocrita intellettualismo, gretto conservatorismo, clericale bigottismo e liberalismo razionale, inaspettatamente, pare essere giunto al capolinea. Infatti, dopo un lungo iter parlamentare e non poche polemiche, finalmente, è entrata in vigore il 31 gennaio 208 la legge (del 22 dicembre 2017 n. 219 – norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipato di trattamento) sul testamento biologico che tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione; normativa che assicura la libertà terapeutica di curarsi ma anche di non farlo. Le “D.A.T.”, acronimo di Dichiarazioni Anticipate di Trattamento, rappresentano il cuore della precitata legge, ossia le disposizioni volontarie sui trattamenti sanitari da seguire e/o ricevere, o meno, in caso o in situazione di incoscienza. Il testamento biologico, o bio - testamento, rinnovabile, modificabile e revocabile in ogni momento, non soggetto a bollo e/o a tassazione di sorta, può essere redatto, in forma libera, vergato a mano o attraverso un modello precompilato, da chiunque, purché maggiorenne ed in grado di intendere e volere. Nel caso in cui le condizioni di salute, ossia, particolari disabilità, non consentano la forma scritta può ricorrersi alla video registrazione (bio – video testamento), o, piuttosto, a qualunque congegno e/o dispositivo tecnologico che renda agevole la comunicazione (testamento bio-digitale). Deve, inoltre, necessariamente contenere: 1) DATI ANAGRAFICI DEL FIRMATARIO, 2) INFORMAZIONI SULLO STATO DI SALUTE, 3) DIRETTIVE SANITARIE SPECIFICHE DA ASSECONDARSI, 4) SOTTOSCRIZIONE DEL MEDICO, 5) SOTTOSCRIZIONE DI FIDUCIARI E TESTIMONI. Tale dichiarazione bio testamentamentaria o testamento biologico è un autentico bio – accordo, o bio – patto. Etimologicamente, infatti, la parola testamento, di derivazione latina (testamentum), ha proprio come significato quello di patto. In merito all’eutanasia, problematica di fondo sottesa in subiecta materia, diversi anni fa, in occasione del decesso autopianificato presso una clinica svizzera, di Lucio MAGRI (non in coma vegetativo, nè tenuto in vita artificialmente dai respiratori, nè malato terminale, bensì, soggetto perfettamente sano ma, a suo dire, stanco di vivere), sul giornale “Il Fatto Quotidiano”, veniva pubblicato un interessante editoriale in merito al confronto tra due antitetici punti di vista, ossia, quello di Marco TRAVAGLIO, secondo cui “il medico salva non uccide” e quello di Paolo FLORES D’ARCAIS “liberi di vivere e morire”. Decidere della propria vita significa anche poter delegare la propria fine ad altre persone? Ecco dunque l’interrogativo, a costoro posto e che tutti dovremmo porci. Per TRAVAGLIO trattasi comunque di “suicidio assistito”, nonché, di “omicidio del consenziente”, piuttosto che di “suicidio passato dal sistema sanitario nazionale” e chi lo sostiene afferma che ciascuno di noi è il solo padrone della propria vita. Di talchè, chi vuole sopprimerla deve farlo da solo, perché il coinvolgimento d’altri determina la disposizione altrui sul bene vita. Dal punto di vista giuridico ciò incontra, infatti, un limite invalicabile, di cui all’art. 575, c.p. che punisce con la reclusione da 21 anni all’ergastolo chiunque cagiona la morte di taluno e fino a 12 chi istiga al suicidio prestando il proprio apporto, anche solo morale. Vero è che sono previste attenuanti ma già mai scriminanti. Il secondo limite a tale “correità” è rappresentato dal giuramento d’Ippocrate, prestato da ogni medico e volto a salvare vite e non a reciderle. Per converso, per Paolo FLORES D’ARCAIS “rispetto alla tua vita il padrone sei tu e non un altro homo sapiens: vescovo, primario ospedaliero, pater familias o qualunque altra autorità che sia. Parafrasandone il pensiero pertanto, Il suicidio assistito è un diritto di pari dignità a quello della vita. I sanitari che aiutano i pazienti in questo viaggio mortifico non dovrebbero essere trattati alla stregua di criminali. Tali scelte sono lungamente maturate ed adeguatamente ponderate. Taluni trattamenti sanitari sono vere e lunghe interminabili torture che culmineranno comunque nella morte. Pertanto, vero è che molti, inorriditi, hanno il diritto di affermare che mai ricorreranno al suicidio assistito, ma che diritto hanno di imporlo a chi ritiene la propria vita una tortura visto che siamo tutti cittadini eguali in dignità e libertà. Contrapposto al diritto alla morte, v’è quello alla vita. E’, Il caso di Charlie GARD, il paziente – bambino, di appena 10 mesi, la cui sorte è stata decisa e segnata da uomini che giocando a fare Dio, hanno reciso il labile e delicato filo di speranza che lo collega alla esistenza, decretandone, per loro volere, la di lui fine, nonostante il grido di disperato dolore dei propri genitori mentre lo stringevano tra le loro braccia, rivendicandone per la loro creatura, l’agognata vita. Pur da innocente, giustiziato alla stregua di un criminale da uomini in toga, è stato condannato a morte, espiando come crimine, unicamente quello di aver ingaggiato – a detta di costoro – una lotta persa in partenza contro la morte, per via della incurabile patologia da cui egli era effetto. La Corte Europea, dal canto suo, pur da sempre propugnatrice delle libertà fondamentali dell’uomo, sostituendosi agli stati membri allorquando si trattava di affermare nuove libertà, nel caso di specie, tuttavia, inspiegabilmente, ed in sfregio all’art. 8 della convenzione Europea dei diritti dell’uomo (diritto al rispetto della vita privata e familiare) si è comportata, alla stessa stregua di Ponzio Pilato, lavandosene le mani, dichiarando di non potersi sostituire agli Stati nazionali, unanimemente concordi nel ritenere che la patologia della piccola creatura, poiché incurabile ed inguaribile, lo avrebbe irrimediabilmente consegnato alla morte. Ed allora, se Charlie, come dicono non era destinato a sopravvivere, perché accelerare temporalmente il naturale exitus e consegnarlo prematuramente alla mannaia della morte, privandolo dell’arbitrio di scelta, impedendogli di lottare e deprivando i genitori della speranza e della fede in un miracolo. Riteniamo immorale, spregevole l’auto determinazione, ossia, scegliere di porre fine alla propria vita, ma non lo è ancor di più, consegnare nelle altrui mani (etero - determinazione) la vita di un innocente ed indifeso sol perché malato? Tale cultura della morte, tanto stigmatizzata da Giovanni Paolo II, oligarchico illimitato potere decisionale, mi riporta alla mente il racconto “L’ESAME” di Richard MATHESON. Egli, aveva ipotizzato una società futuristica fatta solo di giovani. Periodicamente le persone a rischio anzianità, venivano sottoposti ad esami psico–attitudinali e bio-medici onde acclararne capacità psico-fisiche. Il mancato superamento degli stessi comportava automaticamente l’eliminazione sociale. Infatti, i respinti, con pacata e rassegnata accettazione venivano condotti a morte, e sterminati. Il protagonista, sapeva benissimo che questa volta non avrebbe superato il test, ma desiderava vivere, e, come segno di protesta, anzicchè acconsentire che altri scegliessero per sè ha scelto lui il proprio destino, suicidandosi. È toccato oggi a Charlie lo stesso destino dei bimbi spartani, lanciati dalla rupe in caso di malattie e deformità, domani potrebbe toccare agli anziani di MATHESON, piuttosto che a ciascuno di noi, proprio come per l’olocausto semita Hitleriano, perché, magari, non conformi a convenzionali canoni fisici, biologici, genetici e/o estetici, prestabiliti dai potenti di turno, e ritrovarci vittime di una vera e propria epurazione di massa. Proprio perché ritengo che la storia, nella sua ciclicità vichiana, fatta di corsi e ricorsi, ci insegna che natura non fecit saltum, credo che l’unico rimedio apprestabile, come salto evolutivo, sia l’affermazione della libertà di ciascuno nell’autodeterminazione che deve necessariamente finire dove inizia quella dell’altro, concorde con VOLTER, o con chi per lui o come lui, affermò: “pur non condividendo quello che dici mi batterò sempre perché tu lo dica”, perché dove vi è libertà di pensiero, vi è libertà di parola e quindi democrazia incompatibile con oligarchie, monarchie e dittature!
Ringrazio Luca per la sua mail, la sua curiosità sull’argomento è stata preziosa ninfa e spunto alla redazione del presente articolo. La vostra curiosità è la mia curiosità!