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Sapore di male

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

26
LUG
2018

In questi giorni si sono succeduti due eventi che hanno colpito la società italiana: la scomparsa del regista Carlo Vanzina e l’uscita di scena del numero uno di Fiat, Sergio Marchionne. Sono fatti che apparentemente non hanno molto da dire l’uno all’altro, eppure certificano un passaggio di consegne tra un altro pezzo d’Italia, quella del benessere e della spensieratezza degli anni 80, e quella consumata dalla crisi, dalle delocalizzazioni e dal tramonto del capitalismo familista che aveva segnato lo sviluppo economico del nostro paese. Vanzina aveva fatto sognare gli italiani, raccontando di baci estivi e vacanze piene di vita e di avventure. Marchionne ha rappresentato per molti il trionfo della spietatezza, l’uomo capace di fare dell’efficienza del mercato globale una ragion di Stato, più forte di qualsiasi cedimento emotivo.
Entrambi, in modo molto diverso, sono testimoni di un popolo che dimentica la gioia. Il primo, con le sue commedie, così distanti dalle angosce dei nostri giorni. Il secondo, che ha incarnato, in modo fortemente iconico, il superamento di stili e cliché, la ricerca di nuove strade, anche attraverso rotture che potevano apparire impensabili, come quella tra la Fiat e Confindustria.
Due destini distanti, due mondi diversi,  ben illustrati da un altro aspetto, totalmente opposto: la reazione alla fine della loro vicenda. Vanzina, il cantore dei giorni felici, dal volto buono, è stato pianto più o meno da tutti, ricordato con nostalgia, associato ai ricordi belli della gioventù. Marchionne, come ogni uomo di potere, sembra essere travolto da un malcontento che non risparmia le persone, travalica la critica e sembra associare ad ogni forma di governo il ripudio di masse che stentano a riconoscersi in qualsiasi espressione di governo dell’esistente. E’ come se al contrario della fantasia di ciò che ci piacerebbe fare, rappresentata con leggerezza dai film di Vanzina, si possa guardare a Sergio Marchionne come ad un uomo che ha fatto ciò che ha ritenuto di dover fare, che ha indicato ricette dolorose e scomode, ottenendo risultati mai sorretti dal consenso della gente.
Riflettendo su questi due antipodi del costume italiano è come se ciascuno di noi possa leggere nel cambiamento dei tempi e degli idoli una sorta di triste presa di coscienza. Quel sapore di mare, fatto di belle ragazze e falò sulla spiaggia, sembra aver perso il suo gusto, travolto dalle incertezze di un mondo più povero e insicuro, sempre più pessimista sul proprio futuro.
Il trascorrere del tempo ha reso il sale sulle labbra sempre più amaro, portandosi via le bandiere del calcio, il posto fisso, le grandi aziende italiane e i lidi a buon mercato. Rivolgerci ai nostri ricordi rischia di affidarci a una sorta di “come eravamo”, partorendo un raffronto che non mostra di certo la nostra parte migliore, quella più allegra e libera, ma che forse è ormai stanca, avvitata su sé stessa, scoraggiata. Un realismo che non fa più sconti pare diventare il tratto dominante dei nostri prossimi giorni. Un realismo fatto di certezze assolute, dettate da divinità sorde ad ogni appello umanitario, che sembrano spalare con tremenda efficienza cumuli di poesia, liberando strade forse più scorrevoli, ma vuote, senza riferimenti e con sempre meno anima.
C’è qualcosa che proprio non riesce a far presa nelle pieghe dei nostri sogni, un modo di gestire le cose che vorrebbe cancellare ogni deviazione, pausa, riposo o sbaglio, che santifica il grigiore degli affari e dimentica gli abbracci tra le onde. Due mondi, due modi di raccontare e vivere il nostro tempo, che fatichiamo ormai a tenere insieme, come se il mare fosse davvero diventato male.

 



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