Cosa c’è dietro il disagio dei nostri ragazzi? Con una tesi sulla violenza e la devianza minorile, Pamela Semeraro ci guida all’interno di un modo complesso e delicato visto con gli occhi dei giovani
Acconciature stravaganti, corpi tatuati e volti segnati da illusioni e speranze: i ragazzi di oggi appaiono così, soli e indifesi da un mondo in continua evoluzione. Non tutti hanno la forza di comunicare, di reagire, molti preferiscono nascondersi dietro le apparenze: così, dietro una sigaretta si assapora il retrogusto amaro di una trasognata onnipotenza; dietro figure curate e perfette si cela la ricerca disperata di stabilità e sicurezze. Un disagio, quello dei giovani, che ha le radici nella mancanza di un dialogo e di una comunicazione che deva attuarsi principalmente in famiglia: luogo di crescita, di confronto e di risposte. Un disagio che spesso può trasformarsi in devianza e degenerare in violenza, minando la già precaria stabilità, di creature fragili, divise tra sogno e realtà.
Pamela partiamo dando una definizione generale, alla portata di tutti, del concetto di ‘devianza’.
«Per devianza si intende comunemente ogni atto o comportamento, anche solo verbale, di una persona o di un gruppo che viola le norme di una collettività e che di conseguenza va incontro a qualche forma di sanzione. Solitamente quando si parla di devianza si considerano sempre tre elementi di fondo: norme, attori e comportamenti. Le norme sono le regole imposte delle istituzioni, gli attori siamo noi, che decidiamo se seguire o meno queste regole, e i comportamenti rappresentano il modo in cui mettiamo in atto una norma. Queste regole sono sempre esistite, anche nelle tribù primitive, perché servono in virtù di una sopravvivenza, in realtà anche chi decide di non adeguarsi agli schemi, involontariamente segue delle proprie norme».
Molto spesso si fa riferimento a una relazione tra disagio, devianza e delinquenza: questo significa che dietro ogni forma di violenza c’è una devianza?
«Diciamo che c’è un bisogno. Durkheim dice che un atto è criminale, perché urta la coscienza comune e non viceversa. La violenza brutale di alcuni ragazzi, va intesa come la punta di un iceberg, la cui parte sommersa affonda in un altro tipo di violenza, molto più profonda. È la violenza di una società che emargina i ragazzi e che non si fonda su un substrato culturale solido che dovrebbe essere alla base di ogni comunicazione e rapporto. Inevitabilmente, ognuno di noi, può essere un produttore di violenza, anche se non ritenuta tale. C’è la violenza del giudizio, dell’ingiustizia, dell’esclusione, del favoreggiamento: è dall’immagine di una società fredda che ha origine la devianza dei minori, fin quando questa diventa stabile e si fa criminalità in un crescendo attraverso il quale i ragazzi comunicano al mondo che esistono».
Nell’immaginario comune, molti dei giovani che si avvicinano alla devianza restano dei ragazzi ‘a rischio’: ci si può redimere da quest’accezione o si tratta effettivamente di persone che presenteranno sempre delle debolezze in più rispetto agli altri?
«Dipende da chi educa il ragazzo nella fase di recupero. Nelle carceri e presso le varie comunità si cerca proprio di evitare l’etichettamento di questi giovani, perché spesso diventa un abito cucito addosso che difficilmente si riesce a togliere. Tuttavia esistono sempre diverse situazioni: c’è il ragazzo che ha la voglia e la capacità di andare oltre e quello che invece decide di trarre una sorta di vantaggio dalla figura che gli viene attribuita, sfruttandola a proprio favore. È bene precisare, però, che per arrivare al carcere minorile, il ragazzo deve aver commesso un reato molto grave, altrimenti viene sempre concessa la possibilità di redimersi, evitando di inserirlo all’interno di un ambiente carcerario freddo e austero. La giurisprudenza concede sempre il perdono come recupero e per evitare una recidiva: ovviamente si tratta di percorsi supportati dalla figura di un sociologo, un criminologo, uno psicologo e un educatore».
Quindi è come affermare che il tarlo di queste devianze, sia insito all’interno di una società che spesso rappresenta un modello negativo?
«In un certo senso sì. Bisogna considerare che a volte la devianza anticipa norme, costumi e comportamenti che prima erano sinonimo di sacrilegio e di profano e solo col tempo sono state riconosciute e accettate. Ciò che prima veniva visto in maniera negativa, adesso è riconosciuto come abitudine».
Mi viene da pensare all’universo femminile: tutti quei comportamenti che prima erano visti negativamente, col tempo si sono affermati e hanno sancito e definito l’immagine di una donna libera ed emancipata.
«Esatto. In passato la donna che si dava da fare a lavoro era screditata socialmente, così come quelle che uscivano da sole la sera o che prendevano l’iniziativa con il ragazzo. Adesso tutto questo è cambiato e si assiste quasi a un capovolgimento della situazione. Tuttavia, esistono ancora delle realtà arcaiche e primitive, come quelle che riguardano le culture orientali: in quei paesi le donne sono ancora soggette all’autorità maschile e nascono e crescono all’interno di una mentalità monopolizzata dall’uomo».
In quel caso è come se la donna vivesse all’interno di una realtà deviata?
«Sì, bisogna considerare che le risposte della collettività a uno stesso atto, variano nello spazio e nel tempo, per questo motivo si parla di relatività dell’atto deviante, rispetto al contesto storico, politico, sociale e all’ambito geografico. La devianza non è ferma e uguale per tutti, ma varia perché quello che è legittimo oggi, probabilmente non si potrà fare domani o viceversa. Inoltre ci sono comportamenti che da noi vengono considerati scorretti e inadeguati, mentre in altri Paesi hanno un significato positivo. Per quanto riguarda le culture asiatiche, Durkheim fu il primo ad analizzare che i suicidi spesso avvenivano o per eccesso o difetto di integrazione sociale, o per eccesso e difetto nel saper gestire le proprie economie: questo è ciò che avviene per alcune donne dell’Est indotte a compiere delle pratiche particolari e a seguire dei comportamenti prestabiliti, perché convinte che solo così potranno diventare rispettabili e quindi maritabili».
Abbiamo analizzato la devianza in rapporto alla società, ma spesso può avere anche origine nel nucleo familiare.
«Sì assolutamente. Molti studiosi hanno focalizzato la loro attenzione sul nesso eziologico esistente tra la disgregazione familiare e la devianza, in cui la trascuratezza e la disattenzione dei genitori nei confronti dei figli e i sentimenti negativi che si sviluppano tra i coniugi, possono avere una pessima influenza sui minori. Per questo, la mancanza odierna di famiglie tradizionali ha determinato instabilità nei figli e hanno contribuito a un loro profondo turbamento che può travalicare in devianza. Tra l’altro i genitori sono determinanti nella crescita sana e consapevole dei figli, perché rappresentano i primi esempi a cui essi si riferiscono nel loro sviluppo».
Spesso le scuole o gli enti adibiti alla formazione dei ragazzi, invece di riconoscere e intervenire sulle varie forme di devianza, evidenziano le differenze di giovani segnati sin dalla nascita dalla propria condizione sociale. Possiamo dire che per risolvere parte di questo problema, bisognerebbe partire proprio da questi luoghi?
«Sì, è necessario creare una solida struttura sociale che implichi una piena collaborazione da parte delle varie agenzie di controllo e intervento sociale che formulino progetti, tra loro coordinati, con l’obiettivo comune di creare le condizioni più opportune di promuovere l’inclusione sociale dei minori. Ciò che manca è una “cultura dell’emozione”, in cui il minore non sia mai abbandonato a sé stesso con le sue paure e le sue angosce; una cultura che educhi questi figli a non fingere, a esprimere con fiducia i propri sentimenti senza timore di mostrarsi vulnerabili, affinché, in un mondo trascinato verso la competizione esasperata, la fragilità non sia un limite, ma una risorsa».