Un evento attesissimo: finalmente nelle sale il biopic dell’anno con Rami Malek nei panni del cantante dei Queen
Ho un'immagine nitida impressa nella mia memoria: ho 7 anni e sono seduta a tavola con la mia famiglia, nella nostra casa di Livorno. È il novembre del 1991 e il telegiornale annuncia la morte di Freddie Mercury. In quella situazione qualsiasi altro bambino probabilmente sarebbe rimasto indifferente alla cosa ma io no. Io in quel momento ho sentito una strana fitta allo stomaco perché sapevo già benissimo che "è morto" significa "non lo vedrai mai più" ma soprattutto sapevo perfettamente chi fosse Freddie Mercury. Ho sempre avuto il vizio - per me splendido - di attingere a piene mani dalla libreria e dalla collezione di dischi dei membri della mia famiglia. La musica dei Queen risuonava nella mia casa perché a mio fratello Roberto piacevano e io, forse di riflesso, ho iniziato ad amarli tanto quanto amavo Topolino, se non di più. Quel giorno di novembre la televisione mi stava portando via il mio primo grande amore musicale "consapevole" ma questo distacco puramente materiale non ha fatto altro che intensificare il mio rapporto con Freddie e i Queen. Ricordo ancora le cassette e i cd "rubati" dalla stanza di mio fratello e ricordo quella volta in cui in quarta o quinta elementare andai in gita con la scuola a Siena. Mia mamma mi aveva dato 15.000 lire e le spesi quasi tutte per comprare una bandiera dei Queen per me ed una dei Guns'n'Roses per mio fratello Marcello. Quella bandiera ce l'ho ancora, è stata appesa per anni in almeno tre camere da letto diverse. Con la bandiera per mio fratello invece sbagliai clamorosamente ma di questo potremmo parlarne in un articolo sui regali sbagliati e sono certa che ognuno di voi potrebbe dare il suo ricco contributo. Comunque in questa passione sfrenata per questa band c'era solo un piccolo problema: non li avrei mai visti dal vivo. Con gli anni, in realtà, i Queen hanno suonato ancora ma credo sia abbastanza inutile dirvi che purtroppo per loro non è mai stata e non sarà mai la stessa cosa. Freddie Mercury non amava definirsi un leader ma che fosse il diamante più prezioso e luminoso in una gioielleria è innegabile. Questa sua unicità è ciò che emerge maggiormente nel film "Bohemian Rhapsody", che racconta la storia dei Queen dando molto risalto alla storia personale di Freddie. Un'operazione estremamente rischiosa per molti motivi. Il primo ovviamente sta proprio nel personaggio principale. Per assurdo risulta il meno somigliante della band ma sinceramente credo che disquisire eccessivamente sui tratti fisici lascia un po' il tempo che trova e non è questo ciò di cui voglio parlare. Non voglio parlare della fisicità, dei numerosi buchi nella sceneggiatura, delle molte inesattezze nella storia e neanche della timeline non proprio corretta. I film biografici hanno il terribile onere di dover sintetizzare, romanzare e tagliare, tagliare e ancora tagliare. Il risultato è che spesso gli eventi vengono modificati o addirittura inventati e che i protagonisti sembrano forzati e continuamente capaci di tirare fuori qualcosa di geniale da una sciocchezza, senza dare spiegazioni o continuità a quell'azione. Ti cade una caramella? Tac! Scrivi un successone. Il risultato è che quello che io chiamo "effetto Dottor House" (ossia quando qualcuno ha un'illuminazione improvvisa grazie ad una casualità) è dietro l'angolo. Le forzature aumentano se si parla di personaggi omosessuali, la cui consapevolezza della propria sessualità è spesso e volentieri mostrata come una discesa negli inferi, come se l'intero universo gay fosse fatto di promiscuità e pericolo. Nel caso specifico sembra proprio che sia la natura di Freddie a trascinarlo all'inferno, con il collaboratore Paul che gli fa semplicemente da traghettatore e la solitudine che pare essere solo una conseguenza delle sue scelte. Mi viene in mente un altro film biografico che ho visto ultimamente, quello sul fotografo Robert Mapplethorpe, in cui la presa di coscienza della propria natura sembra quasi la prima porta da oltrepassare per arrivare all'oscurità. Questo rientra nel carnet di stereotipi che purtroppo ho riscontrato anche in "Bohemian Rhapsody" ma davvero non è di questo che voglio parlare perché sembra quasi che sia in corso una gara a chi sciorina più errori. Sarò romantica, non lo so, ma nel buio della sala i brividi sulle braccia e gli occhi continuamente lucidi, dalla prima all'ultima immagine e dalla prima e ultima nota, hanno avuto la meglio sulla razionalità tipica del fan che conosce la storia. Ogni perplessità è finita sotto i piedi che battevano a tempo contro il pavimento e l'emozione collettiva, palpabile e sincera, ha contribuito a rendere magico un film che probabilmente avrebbe avuto ben poco valore senza l'amore dei fan e la "sacralità" (passatemi il termine) di cui ancora gode la figura di Freddie Mercury. Una sacralità che oltre a a celebrarlo fa sì che si possa pensare a lui come a qualcuno che c'è ancora, quasi come se fosse ancora vivo. Come se fosse eterno. E come per tutte le cose destinate a rimanere nell'eternità c'è una sorta di pacifica accettazione di tutto, anche di più di qualche errore, perché la cosa importante diventa non trovare un riscontro delle proprie conoscenze ma lasciare che le nostre emozioni e i nostri istinti si facciano stuzzicare facendoci ballare e traballare sulla poltrona. È per questo che possiamo passare sopra tante cose: per amore. Per amore abbiamo accettato Jar Jar Binks in "Star Wars" e accetteremo anche più di qualcosa che non va in "Bohemian Rhapsody" perché nella sala di un cinema, tra resti di popcorn e patatine, non è sempre la verità che va cercata ma il nostro stesso vissuto, noi stessi. È una specie di magia.