A Martina Franca domenica 2 giugno dalle ore 10.00 - in piazza XX Settembre - sarà presente un tavolo di raccolta firme con la partecipazione degli aderenti al comitato per l’eutanasia legale e all’associazione Luca Coscioni.
Per poter comprendere maggiormente il tema, vi riproponiamo un intervento di Annarita Digregorio, del comitato per l'eutanasia legale, pubblicato sul numero di Extra magazine del 10 maggio scorso.
Una proposta di legge vorrebbe rendere lecita la possibilità di poter morire in pace, rinnegando la clandestinità che nel nostro Paese accompagna questa pratica, esattamente come fu per l’aborto. Il vizio privato e pubbliche virtù, il “si fa ma non si dice” ne aumenta i rischi, la difficoltà e il classismo
Il 15 marzo scorso l’associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica ha depositato in Cassazione una proposta di legge d’iniziativa popolare per “Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell'eutanasia”.
Attualmente l’eutanasia attiva costituisce reato e rientra nelle ipotesi previste e punite dall’articolo 579 (Omicidio del consenziente) o dall’articolo 580 (Istigazione o aiuto al suicidio) del codice penale. Al contrario la sospensione delle cure (cosiddetta "eutanasia passiva") rappresenta un diritto inviolabile per l’articolo 32 della Costituzione in base al quale: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Principio affermato, tra l'altro, dalla sentenza con la quale il Tribunale di Roma ha prosciolto Mario Riccio, il medico che ha praticato la sedazione terminale a Piergiorgio Welby, la cui battaglia radicale ha incarnato la semplice applicazione del diritto di ogni malato a non essere sottoposto a terapie mediche contro la propria volontà. La stessa di Eluana Englaro. Suo padre, Beppino, come altri prima e dopo, avrebbe molto più facilmente potuto risolvere il caso di Eluana, attaccata ai tubi inerte per diciassette anni, grazie alla complicità di un medico misericordioso che avrebbe potuto fermare nella clandestinità la pompa che le dava respiro. E invece ha preferito non solo rimanere nella legalità, ma far sì che questa venisse rispettata anche da Stato e istituzioni, pretendendo da esse il consenso alla sua scelta proprio in virtù di quell’articolo 32 della Costituzione. Rifiutando persino di pubblicare una foto degli ultimi istanti di Eluana, la cui immagine in quelle condizioni avrebbe più facilmente potuto toccare quella parte di opinione politica contraria, Englaro ha preferito correre il rischio della legalità. Ha voluto agire per vie legali presentando ricorsi che potevano anche trasformarsi in un boomerang. Ma in quel momento Englaro non voleva a tutti i costi “salvare” la sua scelta, ma esserne risconosciuto il diritto. Sancirlo, fissarlo anche per gli altri, dopo Eluana. Uscendo dalla clandestinità. La straordinarierà di Beppino Englaro, così come la forza di Luca Coscioni e Piergiorgio Welby, è quella di aver agito nel diritto e per il diritto. “Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà” scriveva Welby nella sua lettera in punto di morte a Napolitano.
Infatti chi può (in Italia 30 all’anno) va all’estero per ricevere l’eutanasia, dove è legale. Ultima destinazione Basilea. In questi casi, come per la fecondazione assistita o i matrimoni omosex all’estero, diventa un diritto di censo, feudale. Può farlo solo chi può permetterselo. Perchè costa molto, ed è complicato. E così non solo non siamo tutti uguali di fronte alla legge, ma neppure di fronte alla morte. Gli altri, quelli che non hanno i soldi, le conoscenze, o sono intrasportabili, si procurano la morte da soli. Come Monicelli. Buttandosi dal balcone.
“E’ diritto dell'uomo chiedere la morte, se è stato colpito da una malattia inguaribile e irreversibile? La risposta non può essere che affermativa, perché la vita è un diritto, e non un dovere. Scegliere la morte per evitare sofferenze intollerabili fa parte dei diritti inalienabili della persona, e non si può affermare che la vita è un bene non disponibile da parte dell'individuo senza negare il concetto stesso di libertà, sottoponendolo a categorie morali che non possono che essere collettive, e che quindi, di fatto, cancellano l'individuo e negano la sua libera autodeterminazione” scrive Umberto Veronesi nel suo libro "Il diritto di non soffrire. Cure palliative, testamento biologico, eutanasia".
Le motivazioni che inducono a rifiutare la libertà di scelta in tema di fine vita sono sostanzialmente religiose.
Per un buon credente la vita è un dono indisponibile, a cui non possa rinunciarvi in nessun caso, neppure se ciò comporti sofferenze indicibili. Egli dunque non ricorrerà all’eutanasia
e non accetterà di sospendere trattamenti di sostegno vitale o terapia nutrizionale, neppure quando essi siano palesemente inutili e forzati.
Ciò costituisce il contenuto di una libertà religiosa che nessuno, all’interno della nostra cultura, intende mettere in discussione.
Ma come in altre simili occasioni, il problema non è riconoscere questo diritto, che è gia sancito, quanto stabilire invece se ciò debba essere una scelta del credente o debba essere imposto a tutti dalla legge.
Perchè i credenti, invece, hanno sempre il libero arbitrio. Dai sondaggi sappiamo che la maggior parte dei cattolici è favorevole all’eutanasia. Esattamente come fanno per l’aborto, il divorzio, il sesso extramatrimoniale: col libero arbitrio accantonano le regole che gli impone il loro credo, salvo poi volerle imporre, per legge, a tutto il resto della popolazione.