La democrazia rappresentativa, che vige in Italia, è una forma di governo attraverso cui i cittadini aventi diritto, eleggono direttamente dei delegati per essere governati. Le necessità della popolazione e la ricerca delle relative soluzioni, quindi, sono demandate ai cittadini eletti quali rappresentati del popolo che agiscono in nome e per conto dell’elettorato. Si presume, quindi, che le evidenze territoriali siano da essi rilevate e prese in carico affinché lo Stato, in tutte le sue forme, le risolva. Per quanto la Costituzione italiana avesse confidato nell’efficacia di questa forma di governo, senza riferimenti pregiudizievoli verso qualunque parte politica, si può asserire che, in virtù dell’inefficacia, dell’assenza o della procrastinazione di soluzioni, nella Repubblica Italiana abbia prevalso la natura degli uomini sulle scelte politiche. L’insipienza adottata nell’affrontare i propri ruoli istituzionali, infatti, non riguarda piccole necessità ma bisogni fondamentali per la sussistenza della comunità, come la sanità pubblica, diritto sancito dall'articolo 32 della Costituzione italiana, l'istruzione garantita dall'articolo 34 della Costituzione e dall'articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, il lavoro, essenza e fondamento della Repubblica Italiana, disposto dagli articoli 1 e 4 della Costituzione. Lontano da ogni retorica, in virtù dei risultati, chi non è funzionale al suo ruolo politico e istituzionale, dovrebbe lasciarlo a chi è più capace. Il popolo italiano abituato a una pericolosa passività indotta dal bisogno, ha permesso il proliferare di classi politiche sempre più incapaci, interessate e spregiudicate. L’infinita fiducia dell’elettorato, quasi immunizzato alla sofferenza sino a innalzare la soglia di tolleranza, ha permesso aberrazioni sociali che lambiscono il limite dell’umana sopportazione in qualsiasi realtà civile. Oltre qualsiasi comprensione, però, è anomalo attendere tempi lunghissimi per ricevere prestazioni sanitarie, è inammissibile il tasso di disoccupazione accompagnato da becere contrattazioni del lavoro, è parossistico il sistema educativo inefficace perché condizionato alla volubilità politica. Le uniche giustificazioni addotte dalla politica, sono le accuse contro i governanti precedenti. Di concreto, efficace e costruttivo, nulla. È così che, fra le infinite discrasie, emergono quelle che hanno raggiunto l’apice negativo e sono divenute emergenze improcrastinabili. L’ultima riguarda lo stabilimento siderurgico ex Ilva di Taranto, esempio principe della speculazione, dell’indolenza e dell’incapacità politica. Sessant’anni di ottuso attaccamento alla produzione industriale intensiva dei primi del ‘900, culminati con la contrapposizione fra la salute dei cittadini e la necessità di lavoro. Di fatto, gli abitanti di Taranto che sono impiegati nell’ex Ilva, sono costretti a lavorare anche sapendo di nuocere a se stessi e agli altri. Vittime e carnefici involontari costretti a questa condizione dalla classe politica che ha manovrato e manovra i lunghi fili di questa becera vicenda, fruendo della condizione anestetizzante che avvolge le coscienze dei tarantini e degli italiani. L’ultimo capitolo della vicenda è perfettamente in linea con il passato della fabbrica. Dopo aver regalato l’Italsider alla famiglia Riva e averne verificate le conseguenze fallimentari, lo Stato italiano, non pago, ha consegnato lo stabilimento siderurgico, già inutile e obsoleto, a un leader mondiale dell’acciaio noto per la sua spregiudicatezza nel collocare industrie malsane basate sullo sfruttamento della manodopera e del territorio, per poi abbandonare uomini e ambiente al loro destino. Ora che questo sta accadendo anche a Taranto, in piena crisi mondiale della produzione di acciaio, c’è chi si ostina a parlare della necessità, a qualsiasi prezzo, di preservare il prestigio dell’industria italiana. Eppure, il Governo italiano (perché per i cittadini italiani il Governo è uno e non un’infinità di precarie aggregazioni che muta come le stagioni) ha avuto tutto il tempo per studiare e risolvere i problemi dell’industria italiana in merito alla sua capacità di essere utile alla Nazione, produrre reddito per lo Stato, garantire occupazione, tutelare la vita e il territorio. Secondo logica, un’attività che non garantisce almeno queste condizioni elementari, deve essere rimossa e con essa l’indotto costruito attorno. Di certo, nessuno dotato di logica e discernimento, può accettare oltre la condizione di Taranto, privata volutamente d’identità ed economia per offrire posto a una fabbrica nociva e anacronistica. La misura, ora, è colma e risolvere l’impasse creato a Taranto, compete a chi governa il Paese e non, per l’ennesima volta, ai tarantini. Dei vacui proclami sono piene le fosse del San Brunone.