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Via quei veli

Pubblicato da: Categoria: EDITORIALI

25
AGO
2016
A Olimpiadi terminate, rimane la sensazione di aver assistito a una forzatura vedendo quelle atlete costrette a coprirsi fino a lasciare scoperti solo viso e mani. Come per le pallavoliste: da una parte del campo una tuta che appesantiva i movimenti e un inutile copricapo, dall'altra un due pezzi sexy che "doveva" far eccitare con grande gioia degli sponsor. Naturalmente ho preferito la seconda mise, anche se scopriva in maniera gratuita centimetri birichini (in effetti un paio di pantaloncini non sarebbero stati altrettanto attraenti per lo sguardo) ma almeno valorizzava il corpo lasciandolo libero senza mortificarlo. Se l'abito fa il monaco, il burka è il primo simbolo della repressione femminile, capace di annullare quello che ci identifica più di qualsiasi altra cosa, ancora prima del nome: il volto e la figura. Si tiene coperto qualcosa di cui ci si vergogna, coprire il corpo di una donna è come voler tenere imballato uno strumento musicale o un fiore: è stupido oltre che innaturale. 
È vero, nella nostra libertà noi rischiamo l'altro eccesso, la mercificazione del corpo femminile, non per nulla infilato mezzo nudo pure nelle pubblicità dei siliconi sigillanti: ma rimane pur sempre la possibilità di fare altre scelte. Quelle donne invece non si vestono "come vogliono". Solo profondi condizionamenti culturali possono costringere a indossare quegli scafandri anche in spiaggia o in un campo sportivo.
La prima cosa da insegnare a coloro che entrano nel nostro Paese è, oltre la lingua, avere rispetto della identità femminile: via quei veli! Insegnar loro quell'Umanesimo che noi vantiamo e che segna, me lo si conceda, la superiorità morale - almeno in questo momento storico - della nostra Europa.
 


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