In questi giorni di campagna elettorale si ricevono strane telefonate. Persone ormai scomparse dalla nostra vita si ripresentano con grottesche richieste di sostegno elettorale, quando per anni non c’era stato fino ad allora neppure il più piccolo segno di reciproca considerazione: e mentre costoro parlano, io penso a quale definizione migliore affibbiargli senza cadere nel volgare e senza paragonare il loro sembiante a una precisa parte anatomica. E in effetti risulta ancora più chiaro come mai la frequentazione con certi individui si era interrotta: tipi così, recita il detto, meglio perderli che trovarli – a maggior ragione come consiglieri comunali. Il consenso, direi a questi intraprendenti questuanti di voti, non si improvvisa da un giorno all’altro ma va coltivato sempre, come se si fosse in un’eterna campagna elettorale: basta essere cortesi e attenti verso l’altro in ogni occasione e non solo quando è funzionale alle proprie ambizioni. D’altronde questa, a ben vedere, è anche una regola fondamentale di buona educazione e voilà, la richiesta di essere votati diventa legittima e pertinente, e non sgradita e viscida come una trota in faccia. Ma la fenomenologia del candidato non risparmia anche altri standard comportamentali. “Sai, hanno insistito tanto, mi hanno messo in croce fino a che non ho accettato di mettermi in lista”. Alzi la mano chi non ha mai udito l’esordio tipico (confidenziale) sul perché si è deciso di buttarsi nell’agone elettorale, pronunciata con lo stesso mood sentimentale di Madame Butterfly: alla domanda “come mai la scelta di candidarti?”, pare di sentirli cantare dietro il paravento “eh, un po’ per celia un po’ per non morir”. Vero è che per riempire alcune liste c’è stata una notevole opera di convincimento dietro ogni candidato, ma temo che non sentiremo mai esclamare con disarmante sincerità: “mi sono candidato perché sono ambizioso/a e poi chi non risica non rosica.”
Se ogni vecchio calzino incontra una vecchia scarpa, come recita un proverbio inglese, per ogni candidato c’è un elettore: lapalissiano e matematicamente certo, a meno che non trovarsi nella Russia di Putin. Ebbene, nel variegato mondo degli elettori vi sono ancora quelli che non hanno perso l’innocenza e che si sciolgono alla visita a domicilio del candidato a sindaco: non hanno ancora sviluppato l’immunità critica sufficiente per capire che la visita di un candidato sindaco in questo momento vale (come efficacemente ha fatto notare un’amica) quanto quella di un rappresentante dell’Avon, senza alcuna offesa per la simpatica categoria che anzi offre un valido supporto alla cura della propria persona. Il principio è identico, si vende il proprio prodotto, ma mentre nel secondo caso il risultato è il probabile acquisto di cosmetici, nel primo invece l’unica certezza è il non rivedere più il candidato sia in caso di vittoria che di sconfitta, almeno fino alla prossima tornata. “Prendi i voti e scappa” potrebbe intitolarsi un film sugli stereotipi da campagna elettorale, ma lì per lì la visita del candidato è uno status symbol, lusinga e conquista, tant’è.
I giochi sono fatti, le liste presentate. Nevrosi a parte, un bel mesetto di stress preelettorale non ce lo risparmia nessuno. Difficile astenersi dal fare commenti, soprattutto questa volta, quando come non mai ci sono alcuni nomi che sicuramente stanno benissimo in un contesto frivolo e folk, ma che come aspiranti amministratori risultano più come una provocazione che non altro.
Un pensiero gentile per i candidati, di ogni cantone politico, lo rivolgo utilizzando le parole che la professoressa Lella, la mamma dello scrittore Donato Carrisi, ci insegnava a scuola: “La vita è una gara / volere è potere / se insisti e persisti / tu vinci e conquisti”. Olè.