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Chiusura exIlva: c'è una valida alternativa all'industria?

Pubblicato da: Categoria: EDITORIALI

6
NOV
2019

Il gruppo Arcelor MIttal ha notificato ai commissari straordinari dell’azienda una missiva in cui si esprime la volontà di disimpegnarsi dalla gestione dell’Ilva ad un solo anno dalla sottoscrizione del contratto di “affitto e comodato” invocando la clausola rescissoria che scatterebbe “nel caso in cui un provvedimento legislativo annulli in tutto o in parte il Dpcm del 29 settembre 2017 in modo da rendere impossibile l’esercizio dello stabilimento di Taranto o irrealizzabile il piano industriale”.

La causa scatenante è fondata e risiede nel fatto che il Governo in carica ha deciso di abolire lo scudo penale che schermava il gestore da eventuali implicazioni giudiziarie derivanti dal funzionamento di uno stabilimento palesemente non a norma, cosa chiaramente non attribuibile al nuovo gestore.

Se da un lato la protezione legale era necessaria all’azienda per produrre e nel contempo attuare il piano di ambientalizzazione, dall’altro essa serviva a tutti i responsabili della produzione che – caduto lo scudo – rischiano di vedersi arrivare i carabinieri ad ogni colata.

Se a Taranto si assiste ad un irreale scenario di silenzio sull’argomento (è comprensibile che la popolazione sia ormai stanca e sfiduciata), il mondo della politica dal canto suo sparge parole di ottimismo e minaccia di fare la voce grossa mentre i commentatori si dividono nuovamente e scioccamente in ambientalisti e industrialisti.

Questo perché la vicenda Taranto è diventata ormai un fatto ideologico e non un problema pratico cui porre rimedio con la consapevolezza che la produzione eco sostenibile sia un fatto possibile (basta volerla veramente) e forse anche doveroso per una grande potenza mondiale che – per rimanere tale – non può prescindere dalla produzione dell’acciaio.

C’è chi ancora si aggrappa ai tecnicismi facendo fuffa tecnologica e chi parla in punta di diritto muovendo l’aria e facendo sfoggio di sapienza: noi vorremmo affrontare la vicenda con sfrontata semplicità (fino a scendere nel semplicistico se del caso) convinti che poi alla fine, come sempre nella storia recente, la complessità sia un ottimo espediente per confondere le idee della massa ragionando per slogan.

Italsider, poi Ilva, poi Arcelor è uno stabilimento che inquina dalla notte dei tempi. Ambientalizzare un mostro di queste dimensioni non è uno scherzo sia in termini di risorse economiche che di tempi: coprire i parchi minerari costa 400 milioni di euro, riaccendere un forno costa 200 milioni di euro (l’equivalente del gettito atteso per la plastic tax).

Il gruppo Arcelor era disposto a mettere in campo investimenti ambientali per 1,1 miliardi, produttivi per 1,2 miliardi e a pagare lo stabilimento (trascorsi i diciotto mesi di affitto) 1,8 miliardi di euro.

In cambio di cosa? È ovvio che Arcelor non sia un istituto di beneficenza: la multinazionale chiedeva di produrre 6 milioni di tonnellate di acciaio (deve far reddito e non salvare Taranto) assicurando occupazione a 10.000 operai e rispettando un cronoprogramma di risanamento ambientale stabilito dalle autorità nazionali e sovranazionali.

Chiudendola si bruciano 20.000 posti di lavoro (compreso l’indotto e i fornitori vari), 24 miliardi di euro l’anno, l’1,4% del Pil nazionale e il 12% del pil regionale oltre a dipendere quasi completamente dall’estero nell’acquisizione di acciaio.

Ma la colpa di un eventuale disastro su chi dovrebbe ricadere?

Escludendo il passato (solo un pazzo poteva creare uno stabilimento così inquinante a ridosso della città), dal 2012 in poi le colpe sono da equi distribuire: avete mai visto un provvedimento di sequestro di uno stabilimento senza facoltà d’uso che preveda per giunta che 1 miliardo di acciaio pronto per la vendita venga lasciato marcire sulle banchine perché “corpo del reato”? E quante cose si potevano fare per l’ambientalizzazione con un miliardo di proventi dalla vendita?

E la politica non è da meno: avete mai visto una gara che prevedeva lo scudo penale per chi se la aggiudica, che poi viene tolto con il voto determinante di chi l’ha messo (Renzi e il Partito Democratico avevano istituito lo scudo penale e Renzi e PD hanno votato perché fosse tolto)?

A Taranto è successo perché una politica senza attributi va dietro la piazza e alle “Grete” di turno invece di guidare l’opinione pubblica vigilando perché le cose si facciano. E qui veniamo alla terza responsabilità: siamo sicuri che Arcelor stesse rispettando il piano delle bonifiche? Siamo sicuri che Arcelor non voglia acquisire le acciaierie di Taranto per tirare a campare onde poi prendersi solo le quote di produzione e dare il benservito? Siamo sicuri che Mittal non stia facendo una messinscena per chiudere l’area a caldo disimpegnandosi dalla produzione primaria di acciaio dedicandosi ai cosiddetti acciai speciali (con profonde ricadute strategiche e occupazionali)?

Non lo sapremo mai perché il Governo ha offerto a Mittal una ottima scusa per alzare il prezzo o chiudere in bellezza.

Solo una nota a margine dedicata a tutti coloro che bramano perché lo stabilimento di Taranto marcisca: se ne pentiranno quando vedranno di cosa è capace uno stabilimento chiuso in termini ecologici, di cosa significhi in termini strategici dipendere dall’estero nell’approvvigionamento di acciaio.

E i paladini che immaginano un futuro basato sulla produzione di mitili, sulla spartanità e sui bed & breakfast proveranno cosa vuol dire passare da una città industriale a un paesotto dimezzato in termini di abitanti e con un reddito pro capite da terzo mondo.

 



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