Tema del giorno: il contesto determina l’uomo e le ortensie.
In questi giorni di campagna elettorale, il bioritmo di noi addetti alla comunicazione è completamente stravolto e le funzioni vitali (respirare, mangiare, andare dall’estetista) rallentano decisamente a favore di quelle cerebrali. Nei momenti liberi, quindi, è importante portare a spasso i neuroni per farli svagare un po’: ecco perché il giorno di Pasqua ero felice, ça va sans dire, come una Pasqua perché alla cattedrale di Taranto si teneva un concerto del Requiem di Mozart. Dovete sapere che la produzione di Mozart ha caratteristiche suine, nel senso che, oltre a scatenare grugniti di piacere nell’ascoltarla, come per il maiale è tutto buono, non si butta via niente, neanche quella cosuccia “do-do-sol-sol-la-la-sol” che Mozart compose a cinque anni: l’ha composta Mozart? allora è geniale, punto e basta. Ma se c’è una vetta più alta delle altre, beh, allora quella è il Requiem. E pure il regista Milos Forman lo ha capito bene perché sul Requiem ha costruito le scene clou del suo “Amadeus”. Tornando a noi, quel giorno di Pasqua ero così felice anche perché, oltre alla prospettiva del Requiem, avevo acquistato una nuova pianta di ortensie per abbellire il giardino. Le ortensie sono quelle belle piante con fiori globosi e foglie larghe: sono acidofile, che non significa che sono antipatiche, ma che amano i terreni acidi, e in base al ph del terreno cambiano la loro colorazione. La nuova ortensia aveva catalizzato un bel po’ di tempo durante il giorno per trovare una location adatta, all’ombra e riparata, e mi aveva offerto qualche spunto di riflessione: le ortensie, come gli uomini, si manifestano anche in base al terreno, o al contesto, in cui si trovano. Magari il terreno sarà pure buono e ricco di humus, ma l’ortensia lo vuole acido, e se non è acido, non fiorisce o fa i fiori sbiaditi. Se un bambino nasce in una famiglia di musicisti avrà buone chance di diventare, chissà, un genio della musica, ma se lo stesso bambino nasce nelle favelas brasiliane non avrà molte opportunità di dirigere un giorno l’orchestra della Scala o del Metropolitan e anzi, le sue qualità verranno ignorate o addirittura disprezzate. A ogni modo, mi dilettavo con questi pensieri aspettando il Requiem. Che meraviglia – pensavo – ascoltare Mozart nella cattedrale di San Cataldo, luogo antico, splendido e pieno di suggestioni, con quel colonnato patchwork con pezzi di recupero dal periodo classico al bizantino, con quei marmi policromi del Cappellone che solo a pensarci mi viene giusto un po’ la sindrome di Stendhal. Sono entrata in chiesa con uno stato d’animo a metà tra quello di chi entra nella sala d’attesa del dentista e quello di chi sta per assistere all’apparizione di una comitiva di santi e beati tutti insieme. Quale orrore, appena entrata: sembrava di essere non in una chiesa, ma in una piazza coperta. Tutti che parlavano ad alta voce, si salutavano, facevano capannello… mancava solo il drink in mano e voilà l’happy hour. E io che avevo il terrore di dimenticare acceso il telefonino, macchè, c’era chi al telefono ci stava proprio parlando. Insomma, - ho pensato - sarò anche una personcina di provincia, sarà che i modi del capoluogo non li capisco, ma santo cielo, sempre di una chiesa si tratta, mica in un centro commerciale. Hai voglia a spegnere il telefono, ma lì dentro c’era tanto di quel rumore che anch’io sono stata costretta ad alzare la voce per interloquire, se non altro per esprimere un certo sdegno. Morale della favola: anche chi voleva assumere un atteggiamento consono al luogo era costretto ad adeguarsi e a fare come gli altri, anche perché sarebbe stato ridicolo ostinarsi a parlare a bassa voce in quella babele confusa. Purtroppo questo accade in molti ambiti del vivere civile, che molto spesso diventa incivile proprio perché non ci sono regole e se ci sono non vi è alcuna figura autorevole in grado di farle rispettare.