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Visto, piaciuto/A casa di Freud

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

7
FEB
2014
La commedia di Paolo Genovese fa sorridere e riflettere. E non manca anche la lacrima finale. Perché la vita è come quel secondo piano a Londra
 
Quando non è la prima volta che giungi in un paese straniero puoi concederti il lusso di visitare luoghi e posti che difficilmente trovi sui depliant, quando poi questa città è Londra le occasioni a tua disposizione sono tantissime, l’una più interessante dell’altra.
Così, atterrando per la quinta volta sul suolo inglese c’è tempo anche per visitare la casa di Sigmund Freud, lontana dal centro, a due piani, circondata da un tipico, bellissimo giardino. 
Suoni il campanello e dall’interno qualcuno ti apre, hai così la sensazione di essere atteso, l’emozione è tanta, l’ingresso che porta nello studio è accogliente, il clima sereno, familiare.
La scrivania, i libri, tantissimi libri, quadri, tappeti, ritratti, uno porta la firma di Salvator Dalì, e… il lettino!
E’ vero, tra questi muri, il padre della psicanalisi è vissuto solo l’ultimo anno della sua vita, ma hai netta la sensazione che lì di vite ne siano passate tante, anche perché Anna, la sua ultimogenita, che seguì le orme paterne, visse e lavorò a lungo in questa casa.
E’ stato inevitabile che quell’ambiente tornasse alla mente mentre sul grande schermo del Cinema Verdi, in un’uggiosa serata di febbraio, andavano le immagini dell’ultimo film di Paolo Genovese.
Il protagonista è un “collega” di Freud e la psicanalisi è solo il pretesto perché tante vite possano essere raccontate e analizzate su un originale lettino diviso in due parti, un po’ come l’esistenza di ognuno.
Nelle prime battute c’è chi afferma che non ha nemmeno raggiunto l’obiettivo di avere un obiettivo, e i giovani presenti in sala  sorridono, molti perché si riconoscono, altri perché questa fase l’hanno già superata da un pezzo.
E’ l’amore il vero protagonista, in tutte le sue forme e sfaccettature, con tutte le implicazioni che porta con sé, con tutti i coinvolgimenti, le emozioni, le contraddizioni, le tracce che inevitabilmente restano dell’altro, anche quando una storia si dice essere finita.
“L’amore ha i denti, i denti mordono, i morsi fanno male e le ferite non passano mai”.
Un’ottima sceneggiatura, un’eccellente regia, una buona fotografia, gli attori tutti all’altezza del ruolo affidatogli, mirabile l’interpretazione di ognuno di loro.
Le diverse scene, il districarsi degli eventi mostrano come sia importante  osservare con attenzione l’altro,  guardarlo negli occhi,  conoscerlo in profondità, perché non è possibile, dopo tanti anni di matrimonio, non essere capaci di descrivere la propria moglie  con precisione e dovizia di particolari, rimanendo sul generico, affermando: “è normale”.
Normale…, ma chi è normale? Cosa vuol dire normale? Su quel lettino, posto nello studio per esigenze cinematografiche, così come su quello di Freud, si sono distesi uomini e donne che hanno raccontato la loro storia, e hanno cercato di prendere, anche, da quel poco di positivo che pensavano rimanesse della loro vita, la forza per andare avanti, per procedere lungo il cammino della vita e continuare a salire… ed è al secondo piano, che in una stanza piccola, ma graziosa vengono proiettate le immagini della vita di Freud, in particolare i momenti vissuti con i suoi figli e dedicati alla famiglia.
Affacciandosi dalla finestra si vede il bellissimo giardino, le rose, gli alberi e la panchina sulla quale Freud  amava leggere.
E’ inevitabile prima di andar via, entrare nuovamente nello studio, soffermarsi alla scrivania e da lì guardare tutti i libri da lui studiati, i suoi trattati, i suoi scritti e pensare che forse è proprio vero… è tutta colpa di Freud. 
 
 
 
 
 


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