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Lucia Basile/Figlia di uno spirito libero

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

24
AGO
2012

 

Il ricordo di suo padre, scultore martinese dalla forte personalità, è stato fondamentale per lei. Ecco chi era Salvatore Basile, che ora rivive nel racconto di questa intervista e in un’associazione che porta il suo nome
 
Henri Bergson, filosofo francese del primo Novecento, amava definire il presente come “l’inafferrabile progresso del passato che fa presa sul futuro” e penso che non ci sia aforisma migliore per rendere il legame che lega ogni attimo della nostra esistenza. L’archè di queste recondite riflessioni è l’incontro con una donna, distinta da una compostezza elegante e raffinata, dal carisma travolgente, il carattere determinato, vivace e profondamente radicata nel ricordo di un passato che la rende esemplificazione vivente di quel pensiero bergsoniano citato prima. Caratterizzata da un’infanzia vissuta con un padre dalla forte personalità artistica, la donna in questione è Lucia Basile, figlia di Salvatore, grande scultore dei primi anni del Ventesimo secolo. Dopo una vita di lavoro, ora è pronta più che mai a dar vita al ricordo di suo padre, protagonista indiscusso di numerosi aneddoti che lo raffigurano come uno spirito libero, un sanguigno, secondo molti. Io, invece, sebbene abbia conosciuto questa storica figura solo attraverso il racconto della signora Basile, preferirei descriverlo semplicemente come un ‘artista’, con la ribellione e la profondità tipica di questa figura: d’altronde quella voglia di abbozzare uno schizzo a matita, di sporcarsi le mani e modellare la creta, nascono soprattutto dal bisogno di comunicare sentimenti forti e l’arte è l’unico strumento che possa renderli al meglio.
Signora Basile, partiamo tracciando a grandi linee i momenti più importanti che hanno segnato la vita di suo padre.
 «Mio padre era figlio di un comandante delle guardie sposatosi due volte, infatti ebbe il primo figlio con una donna che morì poco dopo e successivamente si sposò con un’altra donna, dalla quale nacquero mio padre Salvatore e suo fratello Tonino, ma anche in questo caso la sfortuna volle che la loro mamma, nonché seconda moglie, morisse molto giovane di febbre spagnola. All’età di quarantasette anni morì anche mio nonno, di infarto e mio padre venne portato al Villaggio del Fanciullo, anche se era spesso noto per le sue scappatelle verso la casa del fratello maggiore, a pochi passi dall’orfanotrofio: a quel punto la moglie di suo fratello, stanca di questa situazione, convinse il marito a portarlo all’ospizio per invalidi di Lecce, una struttura che accoglieva tutti i ragazzi orfani che avevano perso i genitori di spagnola. Mio padre era molto piccolo e non potendo nemmeno tentare di scappare da lì, passava le sue giornate annoiandosi e osservando le mosche, in quell’ambiente dalle condizioni igienico-sanitarie molto precarie. Si trattava di un edificio retto dallo Stato che di conseguenza assicurava un’educazione ai ragazzi, garantendo loro gli studi necessari, tra cui non poteva mancare l’insegnamento della materia artistica. Un giorno giunse a far visita il ministro Achille Starace che, impressionato dal numero dai tanti bambini che vivevano in quel posto, decise che chi di loro avesse realizzato al meglio una mosca da una palla di ferro battuto, l’avrebbe seguito a Roma per intraprendere un anno di studi gratuiti: mio padre era l’unico che più di tutti conosceva bene quegli insetti che ogni giorno gli ronzavano attorno e creò subito una mosca che destò lo stupore del Ministro e lo convinse subito a portarlo con sé. A Roma mio padre seguì un anno di studi pagati interamente dallo Stato e poi si trasferì a casa di un suo zio, veterinario presso l’Università di Roma: qui gli fu garantito solo un letto per dormire, per il resto dovette provvedere sempre da solo, gestendo il guadagno ricavato dai quadri che realizzava. La sua è stata un’infanzia molto difficile, infatti spesso mi raccontava di quando si accontentava solo di un po’ di pane o cercava di ripararsi le scarpe col ferro filato. Non ha mai chiesto niente a nessuno, eppure era ancora un bambino». 
L’abilità artistica di suo padre è nata come dote naturale, ma si è comunque affinata attraverso gli studi che ha conseguito successivamente: è riuscito a provvedere da solo anche per quanto riguarda la sua formazione professionale?
«Sì, certamente. Mio padre ha vinto numerose borse di studio con le quali è riuscito a pagarsi gli studi, perciò si può dire che la sua intelligenza l’ha portato a raggiungere alti livelli. Finiti gli studi a Roma si è iscritto all’Accademia di Belle Arti a Firenze dove è stato suo professore Giovanni Michelucci, celebre per la chiesa dell’Autostrada del Sole, una persona che mio padre ha stimato molto. Dopo essersi diplomato, ha insegnato a Palermo, perché all’epoca era l’unica sede dove c’era una scuola di formazione professionale per modellare il ferro battuto ed è qui che si è perfezionato in questa tecnica.  Tra l’altro i ferri battuti di mio padre sono tutti facilmente riconoscibili perché erano pieni, pesanti, non cavi e Martina è piena di queste sue opere. Successivamente è stato docente di storia dell’arte al Magistrale di Taranto e al liceo di Martina, quando improvvisamente decise che i ragazzi dovevano essere avviati al mondo dell’arte, sin dalle medie, perché più piccoli e quindi più ricettivi, ma anche più sensibili, perciò si spostò all’”Amedeo d’Aosta” per sua richiesta, dove ha insegnato per vent’anni, fino alla sua morte nel ’67».
Oltre il lato meramente artistico, che ricordo ha della figura di suo padre come uomo?
«Mio padre pur non avendo mai vissuto pienamente il contesto famigliare, ha amato moltissimo mia madre e penso che in un certo modo le loro personalità si compensavano, infatti, mia madre aveva sempre quella funzione moderatrice, volta a contenere le intemperanze di suo marito. Tuttavia nonostante il carattere spesso irrequieto di mio padre, ciò che più di tutto lo contrassegnava era il suo cuore grande, sempre pronto ad aiutare il prossimo: ricordo che in occasione delle feste, come Natale e Pasqua, lui partiva da casa, andava verso il cimitero e invitava a casa nostra, per pranzo, i mendicanti che incontrava, mia madre si preoccupava per me e mia sorella, ma mio padre ribadiva che quelle persone che chiedevano l’elemosina avessero bisogno di mangiare tanto quanto noi. Era pieno di valori e pieno di amore per il prossimo, per i suoi alunni, per la moglie e per le figlie, le sue eterne ‘piccine’. Questo amore è l’insegnamento più grande che io possa aver appreso da lui, sono stata una madre superprotettiva e per quanto riguarda il rapporto che ho avuto con i miei alunni, mentre insegnavo al Motolese, ho sempre sentito l’influenza di mio padre: per lui i ragazzi erano capaci di toccare il suo cuore e nel rapporto alunni-docente erano sempre gli alunni a trasmettere qualcosa. Un uomo così profondo, ma anche molto testardo, uno spirito libero che si è fatto da solo: capace, durante un viaggio a Padova,  di pedinare un uomo alle undici di sera per farsi dire da chi avesse acquistato il cappello che portava in testa, dato che era un amante dei cappelli in tutte le loro varietà, e di riuscire a ottenere lo stesso modello entro la mezzanotte a poche ore dalla partenza; capace di litigare con lo storico preside Caramia, dopo che questi aveva rimandato mia sorella in storia dell’arte chiedendole quante opere avesse realizzato Giotto e capace di scherzare con un vigile urbano sfilandogli i guanti, mentre dirigeva il traffico. Otteneva tutto ciò che voleva pur nella giustizia e nella legalità, questo era mio padre!».
Una personalità travolgente, ma anche indomabile e forse un po’ fuori dagli schemi: questa sua essenza libera e intraprendente, caratterizzava anche il suo lavoro di artista?
«Sì, mio padre non seguiva schemi fissi e predefiniti, si lasciava trasportare dalle prime sensazioni che si generavano dall’impatto con ciò che doveva rappresentare. Tutto quello che recepiva sottoforma di emozioni e ispirazione, prendeva forma nelle sue sculture: alcune di loro erano cotte in creta  e poi portate in fonderia per essere passate col bronzo, altre invece le realizzava in ceramica e venivano cotte a Grottaglie. Quando insegnava disegno ai suoi alunni cercava sempre di portarli fuori, all’aperto, in modo tale che trovassero da soli l’ispirazione, perché l’arte per lui era un processo naturale e interiore».
Suo padre ha mai cercato di alimentare in lei la stessa passione per l’arte?
«La passione per l’arte c’è tutta, anche perché l’ho sempre respirata sin da bambina, ma l’abilità di fare arte mi è sempre stata impedita da mia madre che riteneva fosse già abbastanza avere un “matto” per casa! Per questo motivo ho frequentato il liceo classico, ma allo stesso tempo, mio padre non voleva assolutamente che io e mia sorella imparassimo a suonare uno strumento musicale, perché mia madre era violinista e lui diceva che quando si appartava per suonare si isolava troppo».
La figura di suo padre rivive ancora nei ricordi che ha di ogni singolo momento vissuto con lui, ma anche negli insegnamenti e negli esempi che hanno forgiato la donna che è lei adesso: questo legame profondo che la lega al grande Salvatore Basile è anche uno dei motivi che l’ha spinta verso il progetto di un’associazione dedicata a suo padre?
«Sì, è da tanto tempo che ho in mente questo progetto, ma con il lavoro non era molto facile conciliare tutto, perciò ho aspettato che arrivasse la pensione per dedicarmi alla fondazione dell’Associazione Salvatore Basile e ricordare mio padre attraverso l’arte. Quando si parla di arte il concetto è molto vasto e siamo in un ambito poliedrico che comprende vari settori, perciò con la creazione di questa associazione vogliamo prendere in considerazione molti campi: poesia, pittura, scultura, madonnari, graffitari… già, vogliamo chiedere al Comune di concedere una zona dove poter eseguire l’arte dei graffiti senza essere tacciati di deturpare il territorio o di violare le leggi consone al mantenimento di queste pareti e a tal proposito abbiamo già individuato alcuni muri che possono essere abbelliti e si trovano in centro. Per quanto riguarda la fotografia, abbiamo intenzione di collaborare col fotografo De Vincentis a Grottaglie  o prendere spunto da un’iniziativa del Politecnico di Bari dove dieci laureandi di Architettura hanno realizzato un libro di fotografie a proposito del disfacimento urbano. L’obiettivo è di raccogliere tutti questi talenti appartenenti a vari settori artistici e analizzare un determinato periodo del Novecento, in questo caso i primi anni ’50, per vedere come si intersecano tutte queste arti in quel periodo. Un altro punto importante sul quale vorrei insistere è la voglia di poter collaborare con tutte le altre associazioni presenti sul territorio, per confrontarsi e creare dei progetti insieme che possano rendere più prolifere e coinvolgenti le diverse manifestazioni: una sorta di passaggio del testimone per diffondere più incisivamente le proprie idee. Naturalmente servono tanti sovvenzionamenti, ma siamo disposti a muoverci cercando di interpellare tutte le sovrintendenze necessarie e a richiamare l’attenzione dei giovani laureati sulla nostra associazione».
Quali sono i progetti che avete già in mente per l’associazione?
«A ottobre daremo il premio ‘Salvatore Basile’ all’Amedeo D’Aosta, in occasione dei settanta anni di vita della scuola: premieremo i ragazzi che si distingueranno nelle arti grafiche e nelle arti visive, facendo in modo che a parità di meritocrazia venga premiato il ragazzo più bisognoso con una borsa di studio. Per luglio 2013 abbiamo, invece, il sogno di realizzare la Notte bianca degli artisti, creando un percorso che abbracci tutte le strade di Martina e consenta a tutti di respirare l’arte. Il programma ce l’abbiamo ben chiaro: in Piazza Crispi metteremmo la scultura, in Piazza Garibaldi la pittura, in Piazza Maria Immacolata la poesia e in Piazza XX Settembre una postazione visiva che faccia vedere grazie a dei filmati tutti i lavori organizzati dall’Associazione. In questo caso sarebbe l’arte a incontrare la gente e tutti avrebbero modo di percepirla nelle sue mille forme, senza relegarla al chiuso di qualche sala comunale».


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