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Delizie di ieri/ Menu tarantino, dall´antipasto al dolce

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

13
MAR
2015
“Pizzicarijdde”, “fricijdde”, campanelle e tanto altro: fra tradizioni e innovazioni, ecco le ricette dei nostri nonni che ancora, seppure semplici, ci fanno venire l’acquolina in bocca
 
Quasi certamente a più di un lettore sarà capitata l’esperienza di chiedere al ristorante, al termine di un lauto pranzo, una spaghettata aglio olio e peperoncino, oppure in una delle belle serate delle estati tarantine di godersi il fresco in riva al mare degustando una semplice, ma sempre gustosa, frisella, bagnata nell’acqua e unta con olio, sale, pomodoro e origano.
Questa premessa serve a far comprendere la nostra scelta di questa settimana sulla tematica dell’importanza del cibo assunta nel passato al tempo dei nostri nonni, ma ancora oggi, se è vero come è vero che all’Expo 2015 di Milano un intero settore è stato riservato a “Cibus”, che dovrà studiare tecniche di produzione e di qualità per il futuro delle generazioni.
Di quest’ultimo aspetto se ne occuperanno le cronache dei prossimi giorni. A noi oggi importa incentrare l’attenzione sulle abitudini e sui cibi poveri, semplici, ma sempre genuini dei nostri nonni.
Prima di ogni cosa bisogna ricordare che la parola colazione era bandita dal vocabolario dei nostri padri, infatti prendevano appena una tazza di caffè o di orzo, invece ai bambini era riservato il privilegio, quando c’era la disponibilità economica, di bere un buon bicchiere di latte fresco appena munto che il capraio vendeva nei portoni dei palazzi della Città Antica di Taranto.
Per quanto attiene il pranzo e la cena si deve subito far presente che il pasto, almeno nella maggior parte delle famiglie tarantine, era unico e si consumava fra le 16 e le 17. Tutto ciò perché soltanto a quell’ora i pescatori e i mitilicoltori tornavano dal lavoro insieme agli operai dell’Arsenale e dei Cantieri Navali.
I bimbi, che frequentavano o l’asilo o la scuola elementare, portavano, insieme alla cartella di cartone, anche un cestino per le vivande dove la mamma preparava due fette di pane fatto in casa con una sottilissima fetta di mortadella o con una semplice frittata. Era bello vedere seduti intorno alla stessa mensa genitori, figli, nonni e zii. 
Altro aspetto che  mi preme sottolineare è che nulla veniva buttato via. Lo stesso pane indurito veniva riciclato per essere dato, dopo essere stato bagnato sotto l’acqua, con una spruzzatina di zucchero, ai bambini  golosi. Quello che, invece, era immangiabile veniva venduto ai pescatori come esca per la pesca dei cefali.
Ma  non era l’unico aspetto perché tutto ciò di cui ci si cibava veniva prodotto in casa a cominciare dal pane che le nostre mamme e le nostre nonne facevano due volte alla settimana, insieme alle friselle, e che mandavano in uno dei numerosi forni che pullulavano nei vicoletti della Città Antica.
Era bello vedere all’opera le nonne e le mamme con l’impasto e si aspettava con ansia che da quell’impasto ne avanzasse una parte perché destinata a diventare una semplice pizzetta fritta nell’olio e cosparsa con un sughetto alla pizzaiola. 
Anche la pasta veniva preparata in casa, soprattutto le orecchiette, in occasione delle grandi festività e in estate gli gnocchi di patate, le “pizzicarijdde” e le “fricijdde”. 
Le nostre nonne, in particolare, facevano come le formiche, lavoravano in estate e in autunno per preparare le provviste che poi sarebbero servite nel corso del lungo e freddo inverno. Come dimenticare l’antico e l’affascinante “rito” della salsa di pomodoro fatta in casa, al quale anche chi scrive, da bambina, ha partecipato. Quella salsa doveva essere usata come un bene prezioso, unitamente alle riserve di olio e di vino ma anche a tante capaselle nelle quali si preparavano i peperoni salati e sott’olio, le melanzane, i carciofini e i lamponi sott’olio.  Per non dimenticare quelle capaselle con le acciughe salate che erano veramente una delizia per il nostro palato. 
Ma non finiva qui, perché le nostre brave madri e nonne erano maestre nel preparare i fichi secchi che uniti con le mandorle venivano conservati tra foglie di alloro. 
C’erano anche altri cibi come la buona ricotta che si gustava in maniera eccellente sotto Pasqua o le squisite pampanelle raccolte tra due foglie di fico. Ancora cibi come il sanguinaccio con il limone consumato con un buon bicchiere di vino.
La tradizione tarantina ha lasciato, come ci ricorda il prof. Antonio Fornaro, anche il semplice, ma ricorrente, menu settimanale. Infatti il lunedì era dedicato ai legumi (dei secondi e dei contorni non se ne parlava affatto), il martedì e il giovedì, unitamente alla domenica, alla pasta asciutta, ma la domenica c’era in più quel sapore intrigante del lardo soffritto. Il mercoledì era vario e ci si sbizzarriva nei piatti più semplici, ma sempre genuini, mentre il venerdì era destinato al pesce, alle cozze, alle teglie di riso, patate, zucchine e cozze e il sabato al canonico brodo. 
Varie erano le ricette che si usavano facendo della verdura la regina delle mense come “fave e foglie”, orecchiette con le rape, fave novelle con la cicoria e altri piatti.
Coloro che non disponevano di grandi disponibilità economiche si accontentavano di un semplice uovo con  la cipolla e il sugo e chi aveva fantasia preparava grandi teglie con patate affettate condite con formaggio, olio e origano che venivano cotte su quelle che i nostri nonni chiamavano i forni di campagna.
Poi c’erano i poverissimi che, non potendo fare diversamente, si cibavano di “ndromese”, il cibo più povero che il tarantino abbia mai conosciuto perché fatto di semplice mollica di pane fatta bollire in acqua calda.
Trascureremo i piatti che facevano sfoggio sulle mense dei ricchi, di cui parleremo in altra circostanza.
I tarantini avevano anche il tempo e il modo per trascorrere il tempo attorno al braciere senza annoiarsi facendo abbrustolire sul fuoco ceci, fave e castagne; invece d’estate si mangiavano ben volentieri i lupini salati unitamente ai semi di zucca.
A tutto questo dobbiamo aggiungere quella che definirei “la tradizione nella tradizione”, ossia i dolci tipici dei tarantini per tutto l’anno.
Così dicembre e gennaio erano i mesi delle pettole, delle “sannacchiudere” e delle “carteddate”; febbraio il mese dei calzoni con la ricotta e delle chiacchiere; marzo il mese della pasta riccia di San Giuseppe con i ceci o con le cozze. Ad aprile faceva il trionfale ingresso nelle case taralli, scarcelle e pecorelle di pasta reale.
Luglio era il mese in cui i tarantini facevano autentiche scorpacciate di gratta-gratta, ghiaccio tritato con succo di limone  e di orzata, ma anche di gelati artigianali che venivano venduti dal gelataio ambulante. Agosto era il mese in cui si facevano grandi mellonate all’aperto, ma grande spazio veniva anche riservato anche alle chiancarelle o orecchiette fresche.
Settembre portava il devoto tarallo dei Santi Medici insieme alla pasta con  il sugo di gallina. Ottobre faceva gustare l’ottimo castagnaccio mentre novembre si apriva con le tradizionali favette di zucchero o di “Ognissanti”.
A maggio i tarantini non potevano fare a meno della buona e croccante copeta di mandorle o di arachidi ma da qualche anno i tarantini hanno un dolce in più, il dolce di San Cataldo inventato qualche anno fa dal panificatore ionico Giovanni Doro; un dolce che ha la forma di una ciambella con pasta foglia e sfoglia, con marmellata di limone, con caramellato e pezzettini di noci e di mandorle per ricordare le tre terre che questo dolce rappresenta: Taranto, Palermo e l’Irlanda, la terra natale del patrono, San Cataldo.
I nostri nonni mangiavano il giorno di San Cataldo anche l’ultimo “sannacchiudere”.
Giovanni Doro, panificatore da sei generazioni, è andato ben oltre e propone ogni anno, unitamente al pane di Sant’Antonio, anche il dolce di Sant’Antonio, così come vien fatto a Padova e, per non dimenticare l’estate, ha inventato qualche anno fa la “brusella”, un mix tra bruschetta e frisella. 
Ditemi la verità, cari lettori, forse vi è venuta l’acquolina in bocca! Allora, buon appetito a tutti. 
 


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