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IL TRASFERIMENTO

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

20
NOV
2015
Quando chiesi come mai avessero scelto proprio me per mandare un tecnico nelle Marche, pensavo mi dovessero rispondere con le solite frasi di circostanza: “Abbiamo pensato a lei per la sua indiscussa professionalità, per le sue alte capacità organizzative e operative, ecc..” Invece, con schiettezza disarmante, il direttore commerciale mi rispose che avevano scelto me perché quella trasferta mi avrebbe aiutato a crescere e a fare esperienza e poiché ero giovane e scapolo, non ci sarebbero stati problemi nemmeno con i sindacati.
Così, dopo aver passato le consegne ad una collega che non vedeva l’ora di prendere il mio posto, dopo dieci giorni feci le valige e mi avviai alla volta di Macerata.
Contattate delle agenzie immobiliari, alla fine trovai un appartamento sulla strada per Tolentino. Era in una villetta un po’ decadente, immersa nella vegetazione tanto che la prima volta che ci andai ebbi qualche difficoltà per trovarla. La proprietaria, la signora Sabina, mi informò che lei abitava al piano terra e che l’appartamento che mi interessava era quello del primo piano. 
Per le mie esigenze la casa era perfetta, forse troppo grande, ma ci mettemmo d’accordo. Grande come il suo, l’appartamento era ammobiliato, ma lei non l’aveva mai voluto affittare a famiglie o a più persone perché, aggiunse, da quando era rimasta vedova, cercava solo tranquillità e non avrebbe sopportato sentire sulla testa scalpiccio di tacchi o piagnistei di bambini.
Se mi fossi interessato per far fare un po’ di pulizia in giardino, aggiunse la padrona di casa, avrei anche potuto parcheggiare la macchina all’interno del giardino, sotto la tettoia, la quale, come mi fece notare, era però invasa da erbacce e dall’edera che si stava avviluppando ovunque trovasse da arrampicarsi.
Quando le dissi che ero nato in campagna e che mi avrebbe fatto piacere farlo personalmente, la signora Sabina, quasi non credendo alle sue orecchie, mi portò in cantina per farmi vedere gli attrezzi che da 4 anni giacevano inutilizzati: cesoie, scale, decespugliatore e anche l’occorrente per annaffiare il giardino e, se volevo, anche l’orto sul retro della casa. Mi impegnai a fare quel lavoro nei fine settimana e così il sabato successivo in tuta, casco e guanti, cominciai a ripulire il vialetto d’ingresso e a ridimensionare le siepi che erano cresciute a dismisura oltre il muretto di recinzione e che impedivano l’accesso con la macchina.
Il sabato successivo, mentre ero intento a potare e accatastare rami e sterpaglie, sentii una voce alle mie spalle che diceva: < Buon giorno. Finalmente mia madre si è decisa a chiamarla. Sta uscendo il caffè, ne vuole una tazzina? >
Io mi girai e rimasi sorpreso nel vedere alla finestra quella ragazza dagli occhi chiarissimi e con una testa piena di riccioli neri. Era la figlia della signora Sabina ed era rientrata in nottata da una settimana trascorsa a Norcia. < Grazie. Volentieri. > Le risposi, posando la sega, cesoie e avvicinandomi alla finestra.
< Piacere. Mi chiamo Marco Mardenni, e sono il nuovo inquilino del piano di sopra. Immagino, lei sia la figlia della signora Sabina, vero? >
Lei stette un attimo con la tazza a mezz’aria e con la bocca spalancata poi, porgendomi la mano: < Che stupida. Mi scusi. Credevo che finalmente mia madre si fosse decisa a far venire il giardiniere. Io sono Margherita, piacere. > 
Per quella mattina il lavoro in giardino non andò oltre quello che era già stato fatto perché, dopo aver preso il caffè, attraverso la finestra restammo a parlare fin quando lei si accorse che si era fatto tardi e dovette scappare a cambiarsi per andare alle prove di non ricordo quale concerto.
Margherita era musicista: suonava il violino e dava anche lezioni in casa. A Norcia ci era andata con un gruppo di altri musicisti per esibirsi in due chiese sconsacrate e nel salone del municipio. Ora era impegnata nelle prove per la nuova stagione lirica che a breve avrebbe debuttato allo Sferisterio di Macerata. 
Durante la settimana non era facile incontrarla. Io uscivo di casa verso le sette e a quell’ora lei dormiva ancora e quando rientravo, invece, lei era ancora alle prove e a volte sentivo la sua macchina rientrare in giardino molto tardi e allora non mi sembrava il caso di disturbarla. Ma le domeniche pomeriggio sembravano fatte apposta per poterci incontrare. A volte il mattino, mentre ero ancora a letto, sentivo degli stridenti accordi di violino o di pianoforte che provenivano dal piano terra e allora capivo che in casa dovevano esserci dei musicisti in erba che stavano provando il solfeggio. E spesso sentivo anche la voce di Margherita che cercava di spiegare cosa fosse un pentagramma, la chiave di violino e perché si chiamassero così.
Il pomeriggio, come se ci fossimo dati appuntamento, ci incontravamo in giardino e mentre lei raccoglieva le rose e i fiori ormai sbocciati ed io le indicavo quali steli tagliare, ci raccontavamo le novità della settimana. Quando, come la donzelletta di Leopardi, aveva finito di raccogliere il suo bel mazzolino di rose e viole, rientravamo in casa e io le chiedevo di suonare qualcosa al piano. Ormai a conoscenza dei miei gusti lei iniziava sempre con “La Ballata per Adelina” e poi passava, se ne aveva ancora voglia, a suonare qualche brano di Mozart. A volte mi chiedeva perché non l’avessi studiata, visto che mi piaceva tanto ascoltare la musica classica. Io le rispondevo che mi piaceva solo ascoltarla. Non ero un intenditore e anche per le opere liriche non avrei saputo scegliere un autore preferito. Mi piaceva ascoltare l’intermezzo della Cavalleria Rusticana o il Barbiere di Siviglia o la Traviata, ma per il resto era buio pesto. 
< Allora perché non vieni ad assistere alle prove a Macerata quando finisci di lavorare? Potrebbe piacerti anche se le frequenti interruzioni potrebbero annoiarti. Così a fine prove ce ne possiamo tornare a casa assieme. Che ne dici? >
Io le feci un rapido cenno col capo, che voleva significare si va bene, e poi mi rimisi ad ascoltare le note che da quel momento mi sembrava stessero scaturendo da un’arpa celestiale. 
Ci mettemmo d’accordo per la settimana successiva e così, quando andava allo Sferisterio per le prove, aspettava una sua collega che abitava a Tolentino e faceva la strada con lei. Il ritorno, invece, lo facevamo assieme. Verso le diciannove le inviavo un messaggio sul cellulare e lei mandava qualcuno ad aprirmi i cancelli e così, in disparte e cercando di dare meno fastidio possibile, assistevo alle prove. In programma, quell’anno, c’era Il Rigoletto, La Traviata e il Barbiere di Siviglia. Andai anche alle prime portando con noi anche sua madre. La signora Sabina all’inizio non voleva proprio saperne di venire allo spettacolo. Le sembrava, diceva, di fare un torto al marito. Ma poi prevalse l’amore per la figlia e si convinse. 
< Non so se per gioia o per dolore, ma vedendo Margherita suonare tra tutti quei professori d’orchestra ho pianto lo stesso. >
Ci disse, non sapendo se era più emozionata e orgogliosa della figlia o più in colpa per quella che lei riteneva una scappatella alle rigide regole che si era imposta.
Passati i sei mesi convenzionali che avrei dovuto trascorrere nelle Marche e non avendo ricevuto disposizioni diverse, me ne guardai bene dal ricordare in direzione che il mio periodo di trasferta era terminato. Anzi, quando mi comunicarono che per esigenze varie dovevo restare nelle Marche ancora per un anno, detti il mio silenzio assenso, più contento che mai. 
La stagione estiva era terminata e Margherita ora era meno impegnata. Dava sempre lezioni in casa e a volte si assentava per qualche giorno, quando ad esempio andava ad esibirsi da sola o con altri musicisti in altre città. Ma in definitiva avevamo più tempo da trascorrere assieme.
Con lei visitai tutto il circondario, da Loreto a Recanati, da Ancona a Porto Recanati, dove scoprimmo una trattoria/pizzeria che tra le sue specialità offriva degli antipasti deliziosi. Una sera, di ritorno proprio da Ancona, ci fermammo in quella trattoria di Porto Recanati e all’improvviso la vidi cambiare umore e spegnere nervosamente il cellulare.
< Qualche problema? > Le chiesi. < No. Anzi si. Le solite noie con un cretino che non si vuole mettere il cuore in pace. > < Un tuo ex? > Gli chiesi, curioso. < Non è mai stato un mio ex e mai lo diventerà. Ma lui vorrebbe essere il mio presente, ma non riesco a fargli capire che non mi interessa. >
Mi raccontò che questo ragazzo lo aveva conosciuto durante la stagione estiva allo Sferisterio. Si occupava delle luci e delle scene, e pertanto era normale vederlo spesso e parlargli con una certa confidenza. Ma quando si accorse che quella confidenza tendeva a debordare dalla normale dialettica tra ragazzi, Margherita lo aveva subito affrontato dicendogli che stava sbagliando tutto e che per lei, rimaneva solo un amico. < Allora, perché la prossima volta, se ti importuna ancora, non gli dici che sei fidanzata? Che il ragazzo già ce l’hai. > Gli buttai li sorridendo, ma altrettanto attento alla risposta che mi avrebbe dato. < Ci avevo pensato, sai. Ma il ragazzo prima lo dovrei trovare e comunque quello che mi sta piacendo non si è ancora deciso a farsi avanti. >
Pur capendo che le sue ultime parole si riferivano a me, provai lo stesso un moto di gelosia, un senso di preoccupazione pensando che qualcuno potesse arrivare prima di me e portarmela via.
Quando uscimmo dal locale andammo a fare due passi sul lungomare, a quell’ora e in quella stagione ormai deserto. Camminando cercai la sua mano e passeggiammo in silenzio, ognuno assorto nei propri intimi pensieri. < Sto cominciando a sentire freddo Marco. Possiamo tornare alla macchina? > Come fossi stato destato dalla frase di Margherita, la trassi a me e tenendola stretta tra le braccia le detti un bacio e poi restammo così, immobili, abbracciati, come ad assaporare finalmente quel momento. Ci dividemmo solo quando sentimmo qualcuno che passandoci accanto in bicicletta mi gridò: “Portala a casa che fa freddo. Vuoi che le venga un accidente?”
Effettivamente la temperatura era quella di una notte invernale, ma io non me ne accorsi perché stavo sudando come ad agosto sotto il sole e dovetti slacciarmi il nodo della cravatta. Non avemmo bisogno di dirci tante altre cose o di ripeterci “Ti amo.” Lo sapevamo e lo sentivamo. Solo non ce lo eravamo ancora detto fino a quel momento, e questo solo perché io all’inizio la ritenevo una musicista lontana dalla mia quotidianità e perché lei si aspettava da me il primo passo.
Feci di tutto per rientrare in sede qualche giorno. Volevo farle conoscere i miei genitori e presentarla ai miei amici e per tornare a Milano trovai delle motivazioni che vennero ritenute valide solo dal vigilante di servizio all’ingresso dell’azienda. Ai miei genitori piacque molto Margherita e anche a mia sorella, che a differenza delle altre volte, questa sembrò condividere la mia scelta. 
Prima di rientrare nelle Marche la portai anche in azienda e la presentai al direttore commerciale, il quale, mentre stavamo uscendo dal suo ufficio mi richiamò e, prendendomi da parte e quasi sottovoce, mi disse:
< Dottor Mardenni, ritengo, salvo clamorosi equivoci, che lei non abbia più nessuna voglia di rientrare qui in sede centrale, vero? E per noi avere nelle Marche uno come lei ci tranquillizza. Uno con la sua indiscussa professionalità e con le sue innate capacità organizzative e operative. >
 
 


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