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Martina style/Il segno dei galantuomini

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

24
MAG
2013

 

Un saggio sull’architettura settecentesca a Martina Franca offre spunti di riflessione su un periodo in cui le ricchezze si investivano nella terra e nella pietra, lasciando un patrimonio vivo ancora oggi, nonostante si sia fatto di tutto per trasformare la città in una “signora vecchia e patetica”
 
Tutti siamo immersi in uno spazio, quello dei luoghi nei quali viviamo, circondati da un’architettura che, se compresa nella sua essenza originaria, non solo può rendere la vita più interessante, ma può permetterci, soprattutto, di tenere viva la memoria, di interagire con gli edifici e il tessuto urbano di una città in modo responsabile, salvaguardandone le peculiarità storiche e culturali che li permeano. Un aspetto, quello della salvaguardia, tutt’altro che marginale o astratto, in quanto la comprensione dello stile architettonico che connota un determinato luogo, oltre a suscitare sensazioni e riflessioni, modifica l’umore, fornisce stimoli al miglioramento e aiuta a conoscere noi stessi in rapporto alle qualità, alle bellezze presenti all’interno dello spazio urbano da noi vissuto.
Nella recente monografia del professor Oronzo Brunetti, intitolata “Martina Franca nel Settecento – Strutture architettoniche e immagine urbana”,  l’autore affronta il tema  della ricca produzione di veri e propri linguaggi architettonici, nei quali confluiscono tendenze di gusto diverse per provenienza geografica e temporale, con elementi decorativi che spesso sono citazioni di modelli celebri e che ci permettono di parlare di un vero e proprio “International style” barocco e rococò a diffusione europea, attraverso cui “le esperienze dei grandi maestri dell’architettura italiana del Seicento sono così state riprodotte, riviste, arricchite, interpretate e offerte sotto forma di raccolte di modelli per portali, finestre, altari, scenografie, camini da autori italiani”.
Un volume di notevole pregio, frutto di uno studio approfondito e di un’indagine diretta condotta su numerosi edifici di Martina Franca. Infatti, come spiega  nell’introduzione al volume, il prof. Vincenzo Cazzato dell’Università del Salento, “Palazzi e case sono stati interrogati singolarmente e messi in relazione fra di loro per comprendere i percorsi di trasformazione che hanno prodotto quanto oggi abbiamo ereditato (accrescimento dei volumi, trasformazioni planimetriche, ridefinizione dei prospetti, etc.).”
Il volume offre un'analisi attenta e dettagliata della definizione del linguaggio e dell'immagine barocca e tardobarocca di Martina Franca e, partendo dal  XVI secolo  indaga e ricostruisce le lente trasformazioni operate sulle architetture martinesi per aderire alle evoluzioni sociali della ricca società cittadina fino al XIX secolo. Marcata è l’impronta lasciata dai “galantuomini”, i quali, come scrive il professor Brunetti,       “investirono nella terra e nella pietra le loro ricchezze. I palazzi che costruirono – occasione per autocelebrarsi – e le forme rococò – nella cui leziosità individuavano quella patente di nobiltà non fornita dalle loro origini – furono modello per gli interventi minori e, insieme, architetture auliche e popolari, plasmarono l’immagine della città settecentesca incidendo il segno che tuttora marchia la pelle dell’organismo urbano.” 
Non mancano nella premessa curata dal prof. Brunetti,  passaggi molto critici che suonano come accorate denunce di interventi di cosiddetto “restauro” che in realtà sono “volgari ristrutturazioni operate nella totale mancanza di rispetto per la storicità dei manufatti. In assenza di norme precise, le scelte discutibili dettate dalle mode, il ricorso a materiali non idonei e il disinvolto cambio delle destinazioni d’uso, stanno trasformando la città e allontanando sempre più il centro di Martina dalle sfere dell’urbs e della civica, svuotandolo di valore e identità.”
C’è poco da interpretare in questo passaggio: l’autore, che cita Cesare Brandi, Mario Praz (e qui noi vorremmo anche ricordare Guido Piovene e Carlo Castellaneta, che di Martina Franca hanno lasciato memorabili ritratti letterari nel senso più autentico del termine), sottolinea l’assoluta inadeguatezza degli interventi effettuati, paragonandoli agli “interventi del chirurgo plastico su una vecchia e patetica signora desiderosa di cancellare i segni del tempo”. E infatti in un altro passaggio si legge: “Chi oggi entra da Porta Sant’Antonio, l’arco festoso e fastoso d’invito alla città, non può più godere del dialogo fra le due fabbriche che, pur nella diversità di scala, contribuivano in maniera determinante a qualificare e caratterizzare lo spazio urbano anticipando lo spettacolo di Martina “finis terre del rococò europeo”, così come scriveva Mario Praz nel 1969”. 
Il volume, corredato da numerose fotografie, sia di esterni che di interni, si avvale del ritrovamento della pianta di palazzo Motolese, disegno settecentesco opera dell’architetto Paolino Damiano, documento che conferma che l’architettura di Martina non fu solo opera di maestranze locali, ma anche di qualificati professionisti dei quali i nomi non sono noti.
Insomma, il volume “Martina Franca nel Settecento” restituisce alle elaborazioni artistico-architettoniche della città il giusto ruolo nel panorama nazionale ed europeo. 
Il libro ospita una sezione curata da Gabriele Rossi (Politecnico di Bari) e da Massimo Leserri (dottore di ricerca presso lo stesso Politecnico); un lavoro sulla percezione degli spazi urbani barocchi della città.
Il lavoro si conclude con tre appendici: la trascrizione della Platea dei beni di Giannantonio Deseati del 1742, documento che illustra l’insieme dei beni immobili di un benestante martinese; il censimento delle architetture barocche; la relazione sui lavori di restauro eseguiti da Maria Gaetana Di Capua in alcune sale del palazzo Martino Marinosci, uno degli interni meglio conservati della città.
 


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