Tutti a scattare foto, ora che tutti abbiamo un cellulare. Ma essere fotografi è ben altro: oltre all’esperienza di massa c’è di più, come ci spiega una celebrità dello scatto giornalistico
La decima edizione della rassegna FotoArte, organizzata dal circolo fotografico “Il Castello” di Raimondo Musolino, sta tirando fuori una sorpresa dopo l’altra. E’ stata inaugurata il 25 maggio scorso al MuDi – Museo Diocesano di Taranto - da Kash Gabriele Torsello, celebre fotoreporter che anche i profani della fotografia ricorderanno al centro di un caso internazionale nell’ottobre 2006, quando fu catturato e in seguito rilasciato in Afghanistan.
La sorpresa più recente che Raimondo Musolino ha fatto ai suoi amici e colleghi, nonché alla cittadinanza intera, invitata a seguire gli eventi della rassegna, è stata l’incontro con un’altra celebrità dello scatto giornalistico, Francesco Zizola.
La mostra che Lei ha presentato a Taranto ha come titolo “Uno sguardo inadeguato”. Perché inadeguato?
«Lo sguardo inadeguato è il nostro quando allo sguardo non accompagniamo la riflessione. Dire se lo sguardo inadeguato è anche quello del fotografo, lo lascio all’interpretazione del fruitore. È un titolo con cui metto in discussione me stesso, ma che, allo stesso tempo, vuole generare una domanda in chi guarda: è veramente inadeguato? E se sì, perché? In trent’anni di carriera, per la prima volta ho voluto mostrare non solo delle foto, ma frammenti di storie, e attraverso questi frammenti offrire al possibile lettore attento degli spunti di riflessione sulla validità o meno del linguaggio fotogiornalistico per rappresentare il mondo nella sua complessità».
La grande diffusione di macchine fotografiche (nei telefonini), non sta mettendo in discussione proprio l’essere fotogiornalista? Non ci sono un po’ troppi citizen journalist solo perché hanno un cellulare con lente?
«C’è da dire che si sta verificando una cosa mai successa prima: il numero delle macchine fotografiche in giro per il pianeta supera il numero degli esseri umani! Secondo i dati delle Nazioni Unite ci sono attualmente meno abitanti che cellulari, al 99% muniti di lente. E quindi la percezione di un numero così enorme di persone di cosa sia l’immagine fotografica è una percezione che ci porta a fare diversi passi indietro rispetto a un mondo che si era abituato, numericamente parlando, essendo i fotografi da sempre in minoranza, all’élite dell’immagine. Adesso invece è diventata un’esperienza di massa, che non richiede più la fatica dell’apprendimento, almeno così credono».
Quale differenza c’è tra un reportage di valore informativo e un reportage dove la violenza gratuita, atta a scatenare morbosità, fa da padrona?
«L’obiettività non esiste, ma esiste sicuramente l’onestà. Raccontare la propria visione in relazione alla realtà, che sarà pure una porzione, viene sempre dal reale. È una questione di consapevolezza dei limiti. Di fronte alle persone che soffrono bisogna sapere che c’è un limite molto duro, molto estremo. Quando senti di non poter andare oltre, meglio rivolgere l’obiettivo da un’altra parte oppure scattare e poi, nel dubbio, buttare i rullini. A me è successo diverse volte. La macchina fotografica è un oggetto impersonale, freddo, che però ha una funzione decisa. A violenza, sommare violenza gratuita non va bene. Se c’è una funzione che non è egoistica o egocentrica, allora potrebbe avere a che fare con la missione del giornalismo, e allora ci si possono arrogare alcuni diritti».