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Martina Franca/Stefano Coletta: Una forte voglia di riscatto

Pubblicato da: Categoria: CRONACA

1
NOV
2014

Stefano Coletta, assessore allo sport di Martina Franca nonché arbitro (ora osservatore),  scrive ai vertici sportivi e arbitrali nazionali per manifestare il proprio malessere, ma allo stesso tempo una voglia di riscatto, dopo la violenta aggressione, soprattutto verbale, nei confronti di un arbitro di 17 anni.   Ecco il testo della lettera:

 

Al Presidente del Consiglio, Ministro dello Sport, Presidente del CONI, Presidente della FIGC, Presidente AIA, Presidente del CONI Puglia, Presidente FIGC Puglia, Presidente AIA Puglia

 

Oggetto: Violenza arbitro nel leccese

 

Gentilissimi,

ho deciso di scrivervi questa lettera perché l’ennesimo episodio di violenza ai danni di una delle componenti del calcio, in questo caso l’arbitro, ha acceso in me, ma credo in chiunque ami lo sport e i suoi valori, una forte voglia di riscatto e di repulsione, seppur corredata da innocente impotenza. Vi scrivo da Assessore allo Sport di un comune medio grande (Martina Franca), ma soprattutto da arbitro (ora osservatore), conscio che il mio parlare oggi potrebbe comportare anche ripercussioni disciplinari. Ma non mi importa. Il costante silenzio determinato dalla rigida e vetusta disciplina arbitrale e federale, è oramai superato.

Credo che solo con il coraggio delle nostre azioni, delle nostre scelte, politiche, amministrative e sportive possiamo realmente determinare un cambiamento.

Partiamo da un dato e parlo da arbitro. Prendersela con un ragazzino, picchiandolo e augurandogli la morte è sintomo di squilibrio mentale o di inferiorità intellettuale manifesta. Del resto, non credo di veder spesso allenatori e giocatori che picchiano un proprio compagno, reo di aver sbagliato un gol od un passaggio. Né tantomeno ho mai visto un assistente arbitrale lanciare bandierine all’arbitro, reo di non aver visto una sua segnalazione. La violenza che si consuma in un campo di gioco è pertanto la stessa violenza che può consumarsi al di fuori di esso, nelle case o nelle strade. Insomma non sono l’essere arbitro, ne l’errare fine a sé stesso gli elementi decisivi e scatenanti della violenza. Il problema di fondo è l’assuefazione alle regole, è la malattia, tipica delle società moderne, di reagire con cattiveria alle decisioni che non ci piacciono, alle scelte di chi dovrebbe controllare o giudicarci. Parto da questo presupposto per sottolineare quanto giustizia ordinaria e giustizia sportiva debbano essere più affiatate. Il calciatore squalificato per un anno rimarrà violento nella sua vita. Il presidente che per cinque anni  non potrà più entrare in campo rimarrà colui che picchia il figlio, solo perché ha fatto di testa sua. Insomma se ne fregheranno della giustizia sportiva (soprattutto nelle categorie minori, dove non si gioca per vivere), tanto la loro vita non cambierà. Al massimo berranno una birra in più anziché andare all’allenamento o mangeranno quattro polpette in più la domenica a pranzo, anziché andare allo stadio.

Mi piacerebbe dunque che ad ogni atto violento seguisse ipso jure una denuncia penale, non solo della vittima ma anche della federazione di appartenenza. Oggi, ahimè, non solo non accade questo, ma addirittura un arbitro è obbligato, in base all’art.40 comma terzo lettera d del Regolamento Associativo AIA, “a non adire qualsiasi via legale nei confronti di altri tesserati FIGC e associati per fatti inerenti e comunque connessi con l’attività tecnica sportiva e la vita associativa, senza averne fatto preventiva richiesta scritta al Presidente dell’AIA e senza aver poi ottenuto dal Presidente FIGC la relativa autorizzazione scritta a procedervi nei confronti di altri tesserati e direttamente dal Presidente dell’AIA nei confronti di altri associati”. Assurdo. Un arbitro dovrebbe dunque, dopo essere stato malmenato e picchiato selvaggiamente, chiedere al Presidente AIA (che con tutta la buona volontà, essendo nella sede centrale, potrà rispondere dopo parecchi giorni, sempre che lo faccia) il permesso di “adire le vie legali”, poi dovrebbe ottenere dal Presidente FIGC, ossia da colui eletto con maggior peso percentuale dalle stesse società calcistiche, la relativa autorizzazione. Intanto sono passati mesi, la dignità è già sotto terra e magari quei calciatori/dirigenti violenti continuano a pascolare come nulla fosse successo. Non è ammissibile questo. L’arbitro deve poter denunciare liberamente, magari semplicemente informando il suo Presidente di Sezione o Regionale. E deve farlo prima in quanto uomo e poi in quanto arbitro.

Voglio ricordare che prima di essere arbitri siamo uomini e che la violenza si configura quando vi è un atto lesivo della persona, sia in campo che fuori. E che va perseguita sia in campo che fuori. Senza interferenze di sorta.

Ora, svestendomi della divisa arbitrale, affronterei il caso dal punto di vista politico-amministrativo.

Bene, non vorrei trovarmi nei panni dei colleghi del comune di Cavallino. Il danno di immagine subito dalla città per essere finita su tutte le cronache nazionali e l’accostamento dei suoi cittadini alle parole barbare pronunciate dal presidente della società, non sono un bel biglietto da visita. La lotta alla violenza negli stadi e al danno di immagine che ne scaturisce  deve interessare in primo luogo la politica. E’ mia intenzione nei prossimi mesi sottoporre all’attenzione delle società sportive che utilizzano gli impianti locali la sottoscrizione di un protocollo che  vincoli la concessione delle strutture comunali alla buona condotta delle stesse. Qualsiasi condotta violenta riconducibile al comportamento dei loro tesserati sarà causa di revoca della concessione. Inoltre la successiva costituzione di parte civile degli enti lesi nella immagine sarà un ulteriore stimolo al rispetto delle basilari norme comportamentali del vivere civile. Sarei lieto che questa scelta amministrativa venga resa obbligatoria da chi ha il potere per farlo. E non faccio riferimento solo alla potestà regolamentare dei Comuni.

Vedere un ragazzo che per passione svolge un ruolo delicato e formativo, steso per terra in un corridoio dello spogliatoio, non può non colpire le coscienze di tutti noi. Prima che le stesse siano oberate da pesi insopportabili, è giunto il momento di Fare.



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