Da qualche tempo mi sto ponendo delle domande che vorrei condividere con voi. Cosa differenzia il crimine orrendo commesso da un nero, in una tragica alba meneghina di alcuni giorni fa, che armato di un piccone ha ucciso tre uomini capitati per caso sulla sua strada dall’altrettanto orrendo crimine commesso negli stessi giorni, in una tragica serata barese, da un bianco che ha massacrato moglie e figli per poi suicidarsi? Cosa differenzia lo stupro e l’assassinio di una giovane donna compiuto da un nero, in quel del litorale toscano, dallo stupro e dall’assassinio compiuto da un bianco, in quel del litorale laziale, quasi in contemporaneità temporale? Quali le differenze tra un padre extracomunitario che uccide una figlia perché ha comportamenti difformi dal suo credo religioso ed un marito italiano che uccide la moglie perché questa ha deciso di porre fine al percorso di vita comune? Secondo la vulgata corrente, interpretata ed esaspera dai mass media, le differenze sono antropologiche.
Sembra quasi che il colore della pelle o l’appartenenza ad una etnia non caucasica rappresenti un’aggravante rispetto a crimini o comportamenti criminogeni equiparabili. È aberrante la tesi che un furto, uno stupro, un omicidio, o un femminicidio, sia più orribile ed eticamente più riprovevole se a commetterlo è il diverso da noi. La questione razziale è viziata da un enorme deficit culturale: non esistono in assoluto etnie elette o maledette, non esistono razze superiori o inferiori, non esistono colori positivi o negativi, esistono esclusivamente singoli individui o gruppi circoscritti che, in virtù del proprio libero arbitrio, decidono di vivere in comunione con le regole morali e sociali o in delinquenziale anarchia. Che ci sia un falso pregiudizio razziale, lo svelerebbe l’ipocrisia di tutti quei maschi nostrani “infastiditi” dal colore nero che farebbero carte false per trascorrere una serata con Naomi Campbell e d’altro canto molte delle nostre bianche signore, “infastidite” dal doversi sedere di fianco ad un nero sul tram, difficilmente rifiuterebbero un invito a cena da parte di Denzel Washington. Ciò detto vorrei anche ribadire con altrettanta chiarezza e forza che l’accoglienza e l’integrazione extracomunitaria è un’emergenza europea, in generale, ed italiana in particolare. E proprio in virtù dei princìpi di uguaglianza, a cui facevo riferimento prima, e di pari dignità degli individui sono convinto che l’introduzione e l’osservanza di rigorose regole in materia di immigrazione siano imprescindibili al fine di una reale convivenza civile. L’inviolabile dogma della garanzia dei diritti di tutti coloro che vivono nel nostro Paese, che siano cittadini o residenti, è imprescindibile dal comune rispetto dei doveri nei confronti del Paese. In questo senso ci sono due questioni distinte ma complementari che vorrei sottolineare. Innanzi tutto trovo ipocrita la sollevazione di scudi nei confronti del reato di “immigrazione clandestina”. Se la lingua italiana ha ancora un senso, cosa di cui molti miei connazionali disconoscono la valenza, nel termine stesso di “clandestino” è insito il concetto di reato: una persona è clandestina quando si trova in un posto, qualunque esso sia, senza averne la necessaria autorizzazione e questo non ha nulla a che fare con la xenofobia. Cosa accadrebbe a me, bianco, se un giorno decidessi di entrare negli Stati Uniti senza passaporto e senza visto d’ingresso, da clandestino appunto? Verrei arrestato, processato ed immediatamente rimpatriato nel mio paese d’origine. Qualcuno potrebbe sostenere che sarei vittima di xenofobia? La seconda questione ha a che fare con lo “jus soli”. Trovo ugualmente ipocrita negare il sacrosanto diritto alla cittadinanza ad un bambino, figlio di immigrati, che nasca e viva in Italia. Molti obiettano che ciò che vale è lo “jus sanguinis”. Anche questa è ipocrisia. Se un bambino extracomunitario viene adottato da una coppia italiana ottiene immediatamente la cittadinanza (il caso Balotelli vi dice qualcosa?). In questo caso che fine fa il principio dello “jus sangunis”? Temo che ancora molta strada ci attende sulla via impervia della tolleranza, della convivenza e della solidarietà. In questo senso faremmo un grande passo avanti se ci preoccupassimo del colore dell’anima dei nostri simili piuttosto che del loro colore della pelle.