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PSICO/VALORE LEGALE?

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

12
DIC
2018

C’è chi vorrebbe abolire il riconoscimento dei titoli di studio da parte dello Stato: più merito e meno pezzi di carta. Una proposta che solleva non poche questioni didattiche e morali

L'idea che si possa e debba abolire il valore legale dei titoli di studio ha avuto, nel nostro Paese, un Padre nobile, anzi nobilissimo, nientemeno che Luigi Einaudi, uomo di cultura e noto politico di matrice liberale. Il suo ragionamento è assai semplice e, per certi versi, attualissimo: egli sostiene che il valore legale, ossia il riconoscimento del titolo da parte dello Stato, sortisce un effetto deleterio, in quanto i detentori, a prescindere dal merito effettivo, finiscono per sentirsi legittimati a pretendere (dallo Stato stesso) un'occupazione confacente al titolo conseguito. Egli, quindi, lamenta la triste piaga della disoccupazione intellettuale, da lui addebitata a un sistema scolastico che produce soprattutto illusioni e pretese di buon impiego. Lamenta, inoltre, e in tempi non sospetti, un'esagerata inflazione di "dottori", che, a suo dire, svilisce il senso stesso della parola "dotto", perché se tutti son detti esperti, i veri esperti ne vengono a perdere. Quindi auspica che la formazione sia affidata, così come in epoca antica e medievale, a libere associazioni, che dovranno farsi concorrenza secondo le regole del libero mercato. Detto in altre parole: le competenze non dovrebbero essere riconosciute e certificate (a priori) dallo Stato, bensì riconosciute e premiate (a posteriori) dal mercato. Questa filosofia nasce, con tutta evidenza, da un profondo senso di sfiducia nei confronti della scuola e dell’università, reputate, per gran parte, incapaci nel formare gli studenti e nel certificare con accuratezza conoscenze e competenze. Si prende così atto dell’effettiva disomogeneità tra istituti, dipartimenti e – perché negarlo? – tra docenti. E sulla base di tale differenza di fatto, si avanza anche una pretesa di diritto: si chiede che tutti, titolati o meno, siano ritenuti uguali ai fini dei concorsi, pubblici e non. «Se la scuola non vale nulla, è giusto che non dia alcun titolo»: così dicono i più ferventi liberisti della formazione. Ma quella che può sembrare una soluzione abbastanza ragionevole comporta, per vie traverse, la creazione di ulteriori differenze, perché – si sa! – la selezione effettuata dal mercato presenta sovente dei pregiudizi, che sfavoriscono, anche a parità di preparazione, i laureati provenienti da università ritenute meno prestigiose. Ciò finisce col rendere di fatto ancora più elitaria la possibilità di una buona occupazione. Perché nel mercato della formazione liberista prevale, nonostante l’effetto correttivo delle borse di studio, il censo sul merito. Quindi, per chi crede ancora nelle pari opportunità, la soluzione non consiste nel togliere valore, bensì nel darlo. Conferire più valore, cominciando dai valori. Primo tra tutti il merito, sovente travisato, vilipeso, perfino irriso. Una scuola che valorizzi unicamente il merito e che permetta ai soli meritevoli, a prescindere dal censo, di proseguire negli studi e di accedere ai più alti livelli di istruzione, quindi alle professioni, nel pubblico e nel privato. Una scuola che svesta i panni dell’infermiera pietosa, dispensatrice di titoli, e che certifichi solo conoscenze e competenze effettivamente acquisite. Perché solo un sistema improntato sul perseguimento dell’eccellenza, potrà formare, nel rispetto delle pari opportunità, lavoratori capaci di reggere la spietata competizione globale, in un’epoca, questa, dove è in gioco la nostra stessa tenuta economica.

 



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