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Qui e ora/ Massacrato nelle mani dello Stato

Pubblicato da: Categoria: ATTUALITA'

26
GEN
2017

Di quella drammatica notte del 15 ottobre 2009 molte cose restano ancora da chiarire. Ci sono verità che il corpo livido e senza vita di Stefano Cucchi non potrà mai rivelare
 
Roma, 15 ottobre 2009. Una serata autunnale non particolarmente fredda, serena, solo una bava di vento. Una di quelle che, passeggiando lungo i viali della Capitale, sembra di assistere alla proiezione di un cortometraggio dove scorrono fotogrammi simili a vecchie cartoline.
In Via Lemonia nei pressi del Parco degli Acquedotti, i resti delle alte arcate romane fanno da sfondo. Sul ciglio della strada, un ragazzo alto, magro sta parlando con un passante, gli consegna un piccolo involucro e riceve una banconota. In quell’istante una pattuglia dei Carabinieri sta eseguendo un giro di perlustrazione, assiste alla scena. I militari si fermano e scendono dal loro mezzo. Le procedure di rito prevedono la perquisizione del giovane sospettato di aver ceduto stupefacenti a un compratore. L’esito del controllo è positivo: nelle sue tasche vengono ritrovati 28 grammi di hashish confezionato in diversi formati e alcuni grammi di cocaina insieme a farmaci per curare l’epilessia.
Il quantitativo di stupefacenti è eccessivo per essere considerato uso personale e poi, c’è quella banconota che rende inequivocabile il gesto. Nella notte, Stefano Cucchi, geometra di 32 anni, dopo la perquisizione della sua stanza, è condotto presso la caserma Appio Claudio per essere interrogato e rinchiuso in una cella di sicurezza.
Il 22 ottobre, quel giovane alto 1,76 che pesava solo 43 chili muore nel reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini di Roma.
Al momento del decesso, il suo corpo presentava lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all'addome, al torace, un'emorragia alla vescica, due fratture alla colonna vertebrale e una alla mascella. Ormai pesava solo 37 chili.
La famiglia Cucchi non ha mai accettato la morte di Stefano, quella morte, e Ilaria, sua sorella, ha voluto cercare la verità nei verbali dell’arresto, nelle cartelle cliniche, negli atti del processo, nelle testimonianze.
Il giovane arrivò in tribunale, il giorno successivo all’arresto, in quello stato fisico, incapace di restare in piedi e di parlare. Il giudice che esaminava il suo caso decretò un rinvio dell’udienza e la convalida d’arresto presso il carcere di Regina Coeli. A seguito dell’aggravamento, Cucchi fu condotto presso il nosocomio capitolino Fatebenefratelli, dove gli furono diagnosticate le lesioni successivamente riscontrate all’atto del decesso e gli fu prescritto il ricovero che egli rifiutò. Dopo cinque giorni Cucchi morirà. Solo allora, i suoi familiari potettero vederlo.
Così è emerso uno scenario del tutto difforme da quanto riportato dai documenti ufficiali che imputavano le cause del decesso, all’epilessia di cui Stefano Cucchi soffriva, alla sua tossicodipendenza e alla sua carenza alimentare. Ma anche chi non ha una formazione medica, avrebbe nutrito dubbi sul nesso intercorso fra le cause di morte dichiarate e le inequivocabili tracce sul suo corpo. Il costante bisogno di verità della famiglia Cucchi ha portato all’apertura di un’inchiesta cui è seguito un lunghissimo processo che, proprio lo scorso 17 gennaio, ha condotto il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, e il pm Giovanni Musarò ad accusare di omicidio preterintenzionale, Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro e Francesco Tedesco, i tre militari che condussero l’arresto di Stefano, oltre all’imputazione di calunnia e falso per il comandante della stazione carabinieri, Appio Claudio, e di calunnia per Francesco Tedesco e Vincenzo Nicolardi, altro militare coinvolto.
Stefano Cucchi è stato brutalmente percosso dopo il suo arresto, tanto da procuragli lesioni che lo hanno condotto al decesso. Questa è ormai una certezza.
Se i capi d’accusa saranno convalidati, non potrà che essere messo in discussione l’operato dei militari dell’arma, anche se il comandante generale dei carabinieri, Tullio Del Sette, mostrando la sua solidarietà alla famiglia della vittima e dichiarando la sua disponibilità alla ricerca della chiara e definitiva verità, ribadisce di voler tutelare l’istituzione per proteggerla da qualsiasi delegittimazione.
Anche valutando positivamente l’azione delle Forze dell’Ordine, che quotidianamente mettono a rischio la loro incolumità per tutelare la legge, con professionalità, impegno e abnegazione, sorge il dubbio che al loro interno ci siano individui non altrettanto degni dello stesso rispetto che meritano i loro colleghi che assolvono correttamente il loro compito. Agli operatori delle Forze dell’Ordine non compete infliggere punizioni o istituire processi sommari. Loro devono prevenire il crimine e obbedire agli ordini superiori, favorendo il compito della Giustizia e non sostituendosi a essa. E’ triste costatare che un ruolo così elevato sia svolto anche da individui che, attraverso il loro compito, possano dare sfogo ad atteggiamenti violenti degni della peggiore polizia militare impiegata nei regimi totalitari. Le pene per chi trasgredisce la legge sono previste dalla legge.
Quello di Stefano non è un caso isolato. Le violenze esercitate sui detenuti da alcune guardie carcerarie sono dettagliatamente raccontate nei testi di Giulio Salierno, scrittore e docente universitario, che in oltre trent’anni ha raccolto migliaia di testimonianze e documenti.
La mente, inevitabilmente, corre ai “fatti di Genova” quando, durante il G8, le forze dell’ordine in assetto antisommossa attaccarono indiscriminatamente i manifestanti per sopprimere l’azione di alcuni facinorosi, eseguendo arresti di massa anche su persone estranee alla protesta e assaltando le scuole Diaz, Pertini e Pascoli, divenute sedi di coordinamento del Genoa Social Forum, dove gli attivisti furono selvaggiamente percossi e sottoposti a tortura. L’allora vicequestore Michelangelo Fournier definì quell’azione da “macelleria messicana”.
Alle Forze dell’Ordine vanno la nostra stima e gratitudine per l’azione che svolgono per garantire la sicurezza della popolazione ed è proprio per questo che vorremmo fossero composte solo da donne e uomini sani, onesti e motivati, difensori della Legge e della Costituzione. E’ necessario bonificare l’istituzione da quelle figure che, con le loro indoli violente e disoneste, ne degradano l’immagine.
Non è possibile permettere l’affiancamento di fanatici della violenza e della supremazia, carichi di pessime iniziative e indottrinati a illegali ideologie, a onesti cittadini, prodi figli del popolo, disponibili lavoratori a servizio dello Stato.
La Costituzione Italiana recita “E` punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” e ancora “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.”
 



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