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Parole che contano

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

6
DIC
2013
F come Felicità. Le case editrici hanno intercettato questo bisogno diffuso e cavalcano l’onda. Almeno ci provano. E se smettessimo di desiderare di essere felici? La felicità accade e non risiede nel denaro ma nella curiosità.
 
CENTO GIORNI DI FELICITA’
 
Fausto Brizzi è il nome ben noto del regista di un film di culto, “Notte prima degli esami”, col quale vinse il David di Donatello, e altri film tra cui “Maschi contro femmine”. Come autore è uno sconosciuto. Errata corrige. ERA uno sconosciuto. Infatti  “Cento giorni di felicità” (Einaudi Stile Libero), suo romanzo d’esordio, alla Fiera dell’editoria di Francoforte ha riscosso grande interesse fra editori americani (Penguin) e inglesi (Picador UK), e questa opera prima, uscita un mese fa,  come si legge sulla bandella di copertina, sarà tradotta in Francia, Germania, Spagna, Brasile, Israele, Repubblica Ceca, Slovacchia, Serbia, Turchia, Australia.
Lucio Battistini, il protagonista di “Cento giorni di felicità” è un quarantenne ex pallanuotista con moglie e due figli piccoli, che scopre di avere una malattia e cento giorni di vita in tutto e per tutto. Il romanzo è la storia di come decide di spenderli nel migliore dei modi possibili, e cioè ritrovando gli affetti. Vuole essere felice e ci riesce. «L'unico rimpianto - scriverà - è aver dovuto scoprire di morire per cominciare a vivere». Insomma la formula scelta da Brizzi per questo primo romanzo è quella delle parole che imboccano i sentieri delle speranze e del vivere semplice, dei sentimenti diffusi. Insomma il filone consolatorio. Facile facile. La malattia che Battistini scopre di avere è, naturalmente, il cancro, soprannominato “l’amico Fritz”. Un cancro che lo ha colpito al fegato e che non gli lascia molte alternative: “Quattro o cinque mesi” dirà il medico. “Dipende dalla resistenza del suo organismo. E dalle cure a cui si sottoporrà…La casistica però è molto ampia, qualcuno riesce a vivere anche fino a cinque anni.” Il romanzo, diviso in due parti, e narrato in prima persona dal protagonista, si rivolge  in filo diretto con il lettore. Infatti la prima parte si chiude così: “Vi lascio un paio di pagine bianche per segnare i vostri appunti prima di cominciare il mio personale conto alla rovescia. Non abbiate paura di rovinare il libro scrivendoci sopra. E’ solo un oggetto. Scarabocchiatelo pure, non mi offendo.”  Se questa è la premessa, cari lettori, lasciate perdere gli scarabocchi e andate a fare quattro passi!
 
LE COSE CHE NON HO
 
Questa rubrica si avvale della collaborazione di tanti, delle libraie e dei librai, delle amiche e degli amici, delle scrittrici e degli scrittori, delle traduttrici e dei  traduttori,  delle studentesse e degli studenti, dei post e dei link che leggiamo nella Rete. Insomma è un esperimento che si colloca in un’epoca di cambiamenti che investono tutti gli aspetti della società e, quindi, anche quello della lettura e del rapporto con le parole. Quello che si sta tentando di fare è capire in quale direzione si sta procedendo quando si parla di lettura di libri, che cosa sta cambiando, al di là dei contenuti, nel rapporto libro/lettore. Un aspetto fino a questo momento ci è sembrato di cogliere in modo molto netto: la lettura vuole aprire la gabbia che vede il lettore isolato con il suo libro e diventare esperienza socializzante. Sono tanti i segnali che attestano tale tendenza: spessissimo autori/autrici si rivolgono direttamente ai lettori, gli eReader dispongono di applicazioni che consentono a lettori sparsi in vari luoghi di chiosare a margine il testo che stanno leggendo e condividere i commenti, diffuso il fenomeno dei circoli di lettura, anche e soprattutto su web. Insomma non si legge più come una volta. Non si legge più per star da soli, ma per condividere emozioni, riflessioni a partire da un libro. E veniamo al nocciolo. “Le cose che non ho” (Salani) di Gregoire Delacourt, un pubblicitario che ha lavorato per tanti anni in un’industria di cosmetici,  ci è stato segnalato da Davide e Francesca, due studenti dell’Istituto Agrario “Basile-Caramia” di Locorotondo, ai quali il testo è stato a sua volta segnalato dall’insegnante di Lettere. Sono loro, Davide e Francesca, a suggerirci di inserire nella nostra rubrica questo romanzo che ha per protagonista Jocelyne Guerbette, detta Jo, una merciaia di provincia di 47 anni, madre di due figli e sposata da oltre vent’anni con un operaio, di nome anche lui Jocelyn. Una donna che, per amore, ha rinunciato ai suoi sogni di ragazzina, ma  malgrado i segni dell’età e qualche mugugno, sa accontentarsi di quello che ha. Finché un biglietto della lotteria e una vincita di 18 milioni di euro cambieranno la sua  vita. A Davide e Francesca abbiamo chiesto perché questa favola grigia era tanto piaciuta. “Perché fa capire che la felicità è a portata di mano, è dentro ciascuno di noi, e consiste nel restare fedeli a se stessi.” Davide e Francesca  frequentano il quarto anno e amano leggere, sono assidui frequentatori delle librerie. Li abbiamo osservati con attenzione mentre curiosavano con vivo interesse fra gli scaffali della libreria “L’Approdo”. Ci è bastato questo dettaglio per accettare di accogliere  il loro suggerimento. Ragazze e ragazzi vanno ascoltati. Cominciamo a fidarci un po’ più spesso dei nostri giovani. Può renderci felici. 
 
IMPARA AD ESSERE FELICE
 
La copertina reca la foto di una ragazza di spalle affacciata  al finestrino di un treno in corsa. Il vento le solleva qualche ciocca dei suoi lunghi capelli castani. Sono dirette a lei le parole dei trentuno capitoli, saggi brevi e densissimi, che compongono l’ultimo lavoro di Paolo Crepet, psichiatra e sociologo, “Impara a essere felice” (Einaudi Stile Libero Extra). Trentuno capitoli tutti centrati sulla felicità, “treno senza orario”, nei quali l’autore,  scegliendo come destinatario delle sue parole una ragazza,  sottolinea la necessità  per la società occidentale  di imparare, appunto,  ad essere felice, senza tuttavia cadere nella trappola del desiderare di essere felici a tutti i costi. In pratica si tratta di imparare a non trasformare il naturale bisogno di felicità in una nuova dipendenza.  Nell’introduzione leggiamo: “Guardati attorno: non vedi quante persone tristi girano per le strade, frequentano uffici, affollano metropolitane, siedono ai ristoranti, prendono un caffè al bar? Non pensare che sia soltanto l’attuale – e per molti versi atroce – crisi economica ad aver avvelenato il loro spirito, a farle alzare la mattina senza piglio, senza progetto, senza voglia di costruire un’impresa e nemmeno di coccolare un sogno. Gran parte della gente, soprattutto nell’Occidente smaccatamente privilegiato, è stata educata alla tristezza piuttosto che alla felicità.”
Crepet traccia un solco entro il quale piantare il seme della felicità. Questo solco è il cambiamento, l’innovazione come stato d’animo individuale, come capacità di aggiungere sempre qualcosa in più in quello che facciamo abitualmente. “La ricerca della felicità non risiede nel conservare, ma nel coraggio di modificare il corso degli eventi”.  Nel coraggio di andare controcorrente senza aver paura di tirarsi fuori dal consenso facile e gratuito  e ribaltare i luoghi comuni, come quello per esempio dell’equazione solitudine/infelicità. “La solitudine è, spesso, frutto di una selezione, di una capacità di discernimento. Dovrebbe essere per tutti molto triste sentirsi obbligati a tessere relazioni pur di non rimanere da soli. Pittori, musicisti conoscono bene il significato di <<solitudine gioiosa>>, perché non temono di rimanere soli davanti a una tela o a uno spartito. Anche un contadino conosce bene quella sensazione quando pota la vite, o un fabbro quando piega magistralmente un ferro…. La solitudine ha, a volte, colori e sfumature inattesi, sorprendenti. E’ una stanza vuota dove risuona la propria anima, la propria sensibilità.” 
 


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