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La lettera di Saverio/ Il ritorno dalla guerra

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

18
DIC
2015
Uno spaccato della Taranto agli inizi del 900, con gli uomini in trincea e le donne ad aspettare qualcuno che forse non sarebbe più tornato. Un miracolo di Natale in una storia che ne abbraccia tante
 
Questo racconto si svolge nei primi anni dello scorso secolo, durante gli anni della Grande Guerra. Abbiamo impreziosito questo emozionante spaccato di altri tempi con delle foto di Imma Brigante, che ha scelto per la sua modella Ilaria Iacca abiti originali dei primi del Novecento, trovati dopo lunga ricerca a Carosino, in provincia di Taranto, in casa di una collezionista, Milena Sibilla. Imma Brigante ha curato anche il make up, fedele al mood dell’epoca. Buona lettura!
 
 
Una infermiera al fronte durante la Grande Guerra dovrebbe ricordare e tenere cara la propria divisa perché legata a una attività che l’ha vista protagonista crocerossina in una guerra che non risparmiò niente e nessuno.
Eppure per me crocerossina così non fu, o meglio, la divisa è sempre testimone di qualcosa di importante, ma quella lettera, recapitatami subito dopo l’ultimo Natale di guerra da Saverio, un tarantino straordinario che riuscì a trasformare la mia missione di infermiera in una storia ricca di emozioni e di brividi, è diventata per me una testimonianza di grandissima importanza perché mi ha cambiato la vita.
Anche per una crocerossina può valere molto di più portarsi nel cuore un ricordo di una storia stupenda, anche più di una ferita guarita su un corpo dilaniato di un soldato inerme.
Da crocerossina facevo la spola tra una trincea e l’altra portando conforto, assistenza infermieristica e trasformandomi, quando il caso lo richiedeva, anche in scrivana.
Quel giorno conobbi il soldato tarantino Saverio, sapeva leggere e scrivere, ma era un pozzo di conoscenza per quanto attiene la coltivazione delle cozze, era infatti un mitilicoltore tarantino, felicemente spostato e con prole.
Era stato richiamato alle armi e aveva risposto con slancio e convinzione all’invito di difendere la Patria in una guerra lunga, logorante e artefice di morte e distruzione.
Era stato inviato subito in trincea e noi crocerossine avevamo il compito di portare conforto ai soldati con la nostra parola, con la nostra opera di infermiere e, talvolta, anche come scrivane per quei soldati, non pochi, che erano analfabeti. Era quel giorno il 22 novembre, festa di Santa Cecilia, e Saverio mi chiese di avere la pazienza di ascoltarlo in quello che per lui non fu soltanto un ricordo ma la memoria delle festività di Santa Cecilia che per i tarantini rappresentano l’overture del lungo periodo natalizio. Risento ancora con grande dolcezza nel mio cuore le espressioni partecipate con cui Saverio mi descriveva ciò che accadeva, e ancora oggi accade, a Taranto.
La sveglia veniva fatta nel cuore della notte dai bandisti che eseguivano le prime pastorali natalizie di autori tarantini, mentre le massaie nelle case friggevano nell’olio bollente le squisite pettole, le frittelle dei poveri che fanno la festa del Natale tarantino. Ad un certo punto Saverio con gli occhi lucidi e pronti a far sgorgare le intrattenibili lacrime mi confidò: “Tu non sai cosa sarei disposto a fare se, quasi per magia, in questo istante potessi ascoltare almeno una sola nota delle pastorali e assaporare una fragrante e deliziosa pettola”.
Restai impietrita di fronte a questa scena e a questo stato d’animo che per me era come una lezione di vita scritta con il cuore sulla bocca del soldato tarantino Saverio in trincea. Gli strinsi la mano e poi portai la mia sulla sua fronte, era gelida e intrisa di sudore, mi sembrava di toccare la fronte di un cadavere. Saverio aggiunse: “Vai, figlia mia, altri miei commilitoni hanno bisogno di te, ma dimmi soltanto il tuo nome perché lo possa portare scolpito nel mio cuore finchè vivrò. Tu oggi mi hai fatto rivivere una pagina della mia vita tarantina; è stato come se tu mi avessi quasi per incanto, come un angelo, trasportato da questa trincea fredda e male odorante, nella mia umile ma sempre bella casa di via Duomo, resa calda dal sorriso e dall’affetto di mia moglie Grazia e dei miei figli, i gioielli più grandi della mia vita”.
Lo dovetti lasciare per evitare di farmi vedere anche io piangente. 
Ritornai nella sua trincea il giorno di Natale, l’ultimo della Grande Guerra, ma Saverio non c’era. Chiesi informazioni e seppi che aveva ricevuto il più bello e inatteso regalo di Natale: era stato congedato e rimandato nella sua famiglia d’origine a Taranto perché nel corso di un bombardamento una mina vagante gli aveva perforato una gamba e i sanitari avevano suggerito al Comando Militare che sarebbe stato più opportuno privarsi del soldato Saverio piuttosto che curarlo, visto che si erano sparse le prime voci dell’imminente fine di una guerra che nessuno aveva voluto ma che aveva mietuto milioni di vite umane.
Saverio, una volta tornato a Taranto, dopo lunghe ed estenuanti ricerche riuscì ad entrare in possesso del mio indirizzo e mi volle raccontare in una lunghissima e bellissima lettera, che gelosamente custodisco nel cassetto della mia scrivania, ma che quotidianamente porto stampata nel mio cuore, nella quale mi descrisse tutti i particolari del suo rientro nella città bimare.
Il viaggio fu lungo ed estenuante. Era stipato in un vagone ferroviario e il suo aspetto dimesso faceva sì che su di lui si incrociassero gli sguardi curiosi degli altri passeggeri che con pacchi dono infiocchettati si apprestavano a trascorrere il Natale nelle loro case insieme ai famigliari. Saverio aveva la barba incolta e la divisa militare perché gli era stato imposto di mantenerla fino al suo ritorno a casa.
Cercava di dare un po’ di ordine a quei capelli sporchi e disordinati che nella vita di trincea avevano ospitato di giorno e di notte centinaia di fastidiosi e riluttanti pidocchi.
Giunse a Taranto intorno a mezzogiorno del 25 dicembre. Non faceva molto freddo perché a Taranto a Natale non fa freddo come nelle città del Nord; il freddo aspetta la fine di gennaio per fare capolino nel capoluogo ionico.
Saverio si guardò intorno e dovette constatare con amarezza che non c’era nemmeno una carrozza disposta ad accompagnarlo nella sua casa di via Duomo. Così di decise di mettersi sulle spalle il pesante zaino che conteneva le coperte militari, la divisa invernale e la gamella nella quale aveva trovato sempre, durante la vita in trincea, un po’ di brodaglia nella quale si intingevano fette di pane duro avanzati dai giorni precedenti. E proprio allora, nel giorno di Natale, nella sua mente affioravano i tristi ricordi di quando nella trincea non arrivava nemmeno l’acqua e che per non lasciarsi andare, e morire assiderati, lui e i suoi commilitoni bevevano le loro stesse urine. Anche questa era la vita in trincea, una vita che non si poteva dimenticare ma che si desiderava trasmettere ai posteri perché potessero capire che la guerra era, e resta, anche privazione di un semplice sorso di acqua.
Con lo zaino sulle spalle Saverio deviò dalla parte del Ponte di Pietra verso la regia azienda dove aveva lavorato come mitilicoltore prima della sua avventura bellica. Chiese ed ottenne, senza pagare un solo centesimo, una “zoca” di cozze; era la strenna che si accingeva a portare nella sua casa di via Duomo.
Giunto nel portone di casa sembrava che il cuore gli salisse in gola, mai aveva sentito così pesanti quegli scalini che sembravano interminabili come le raffiche che sul campo di battaglia giungevano dal fronte nemico. Arrivato dietro la porta di casa bussò così come si ricordava che facevano gli zampognari prima che lui partisse in guerra. Gli zampognari, infatti, si presentavano ogni anno a casa di Saverio il giorno di Natale, all’ora di pranzo, per suonare con la zampogna e la ciaramella la nenia di Natale davanti al grande presepe che Nicolino, il figlio di Saverio, allestiva nella casa paterna.
Bussò e subito ascoltò una voce femminile, era quella di Grazia, l’amata moglie che, avendo riconosciuto nel ticchettio della porta lo stesso degli zampognari, così si esprimeva: “Andate via, in questa casa da 4 anni non è più Natale, non c’è più il presepe, si raccolgono soltanto lacrime nel fazzoletto. Quest’anno, poi, più degli altri perché non abbiamo notizie del capofamiglia impegnato in guerra”. 
Saverio ritentò lo “scherzo”, ma dovette poi arrendersi perchè sapeva che dietro quell’uscio c’erano cuori affranti come il suo e che non si poteva più perdere nemmeno un istante.
Il miracolo di Natale stava per avverarsi. 
Saverio raccolse le sue residue forze e con flebile voce sussurrò attraverso la fessura della vecchia serratura di casa: “Apri, Grazia, sono Saverio, Gesù Bambino, portandomi per mano, mi ha riportato da te e dai miei diletti figli. Adesso per noi è di nuovo Natale. Aprimi, non ce la faccio più ad aspettare nemmeno un secondo ancora”. 
Grazia spalancò l’uscio, aprì le braccia, le strinse forte al collo del suo Saverio mentre i figli facevano a gara per avere anche un primo minimo contatto fisico con quel dono disceso dal cielo attraverso le strade insanguinate della guerra; era il loro Salvatore che riaccendeva di fulgida luce quel focolare domestico che era rimasto spento dal giorno in cui Saverio era partito alle armi.
Nessuno riusciva a trattenere le lacrime perché queste da sole esprimevano lo stupore e la gioia per un evento che soltanto la parola miracolo può contenere. Era il miracolo di Natale in casa di Saverio, era nato con qualche ora di ritardo ma era nato Gesù Bambino che aveva preso le sembianze di quel soldato partito quattro 4 anni prima con lo slancio di chi crede nel servizio di difesa della propria Patria ma che ora tornava tutto cencioso e quasi irriconoscibile. 
Grazia chiese subito una mano alle figlie Chiarina, Lelletta, Lucia e Melina. Ognuno aveva ricevuto un compito: una doveva mettere la pentola con l’acqua sul fuoco nella cucina a carbone, l’altra doveva apparecchiare la tavola, l’altra doveva preparare il letto per papà Saverio, l’altra doveva accendere il fuoco nel braciere per riscaldare la casa.
Saverio dette subito uno sguardo veloce come se fosse una telecamera pronta a zumare su qualcosa che non riusciva però a trovare: nella sua casa, stranamente, ma non troppo, non c’era il presepe. Chiese spiegazioni al figlio Nicolino che gli disse che da quando lui era partito al fronte nella loro casa non si era allestito più alcun presepe. 
Saverio non si perse d’animo e invitò il figlio Mino a salire sul tramezzo e a portare giù lo scatolone in cui erano conservate le statuine riproducenti la Madonna, San Giuseppe, Gesù Bambino, il bue e l’asinello. Poi aggiunse: “Vedi, Mino, di trovare anche la statuina di Sant’Anastasia, perchè domani, 26 dicembre, è giusto che ci sia anche Lei e, tu, figlio mio Lino, datti da fare a trovare i Re Magi, adesso soltanto posso capire quale fu la loro fatica per raggiungere la Grotta di Betlemme. Anche io, un Magio decaduto, sporco, e senza animale da soma, ho raggiunto la mia Betlemme, la nostra casa, sulla quale brilla la Stella Cometa che Dio ha voluto che gli Angeli posassero su questa misera casa di via Duomo, la Strada Maggiore della Città Antica di Taranto.
Furono bravi i figli di Saverio e in un batter d’occhio portarono al padre le statuine della Natività e lui le volle sistemare al centro della tavola imbandita con poco pane e un semplice piatto di maccheroni al sugo e un po’ d’acqua fresca nella immancabile e indimenticabile giarla di vetro.
Prima di mettersi a tavola Grazia invitò Saverio a benedire il cibo come era solito fare prima che partisse soldato. Saverio non volle dare alcuna benedizione perché diceva che la benedizione era l’improvvisata Natività e che si doveva fare insieme una sola cosa: cantare a squarciagola il “Tu scendi dalle stelle” e aggiungeva: “Cantatatelo con tutta la forza che avete in voi perché questo canto lo possa ascoltare il vicinato e capire che a casa di Saverio c’è stato il miracolo di Natale”.
Il canto fu eseguito alla perfezione, ma il bello doveva ancora venire. Nicolino si mise sullo sgabello e improvvisò la poesia di Natale per il suo papà tornato dalla trincea e così recitò: “Caro babbo, sei tornato, ti ha lasciato il gran nemico con la cara mia mammina quante notti ho pianto per te”.
Papà Saverio, trattenendo la commozione, rivolto a Nicolino disse: “Per quest’anno, figlio mio, non ho un centesimo in tasca, ma questo bacio, che adesso lascio sulla tua rosea guancia, nel tempo avrà più valore di una montagna di denaro”.
In casa di Saverio non si fece in tempo nemmeno a terminare di mangiare un semplice piatto di pasta al sugo perché, come i pastori del presepe, la gente del vicinato andò a bussare alla sua casa: aveva capito che Saverio aveva fatto ritorno a casa e riempì quella casa di ogni bendidio perché adesso aveva un senso portare i cibi della tradizione tarantina in quella casa che era stata illuminata e riscaldata dal ritorno di Saverio.
Lui, Saverio, da par suo invitò la moglie a trattenere per qualche minuto in casa tutta quella brava gente; non aveva nulla da offrire, né carne, né pesce, né dolci, ma soltanto le cozze che lui aveva portato a casa come strenna natalizia, semplice ma sentita, e che lui stesso voleva che venisse condivisa con il vicinato.
Si fece tardi e qualcuno dei figli osò proporre una improvvisata tombolata, la proposta cadde sul nascere. Erano tutti stanchi, ma felici, in quella casa.
Un altro figlio propose, invece, il gioco delle carte; un altro, quasi da incosciente, invitava papà Saverio a raccontare alcuni episodi della vita in trincea. E lui, con il suo fare bonario aggiungeva: “Lo farò, figli miei, adesso che riprenderò le mie forze non tralascerò nulla, dirò a tutti di conservare nella memoria ogni particolare, ma sopratutto una figura angelica vestita da crocerossina che mi è sembrata proprio come un angelo mandatomi a bella posta nell’inferno della trincea”.
Quella sera la carbonella accesa nel braciere sembrava ardere più del solito, sembrava come se volesse partecipare alla gioia di questo evento straordinario. Eppure bisognava ripetere il rituale di ogni sera dello spegnimento della brace con l’acqua fredda per evitare che l’ossido di carbonio potesse procurare danni nel corso ella nottata. Chiarina si volle accertare che il fuoco fosse spento, aprì uno spiraglio della finestra perché uscisse l’aria consumata che si era accumulata. Da questa notte nella casa era tornato il loro “re” e bisognava aver per lui ogni riguardo.
Saverio ebbe il tempo soltanto di darsi una rinfrescata per la barba e per il resto si poteva anche aspettare. 
Stranamente nessuno aveva notato la ferita che Saverio si era portato dal fronte e impressa nella sanguinante gamba. 
Fu sempre Nicolino a svelare ai restanti membri della famiglia un segreto che Saverio voleva tenere nascosto per sé.
Prima di trovare posto nella branda insieme agli altri fratelli Nicolino ebbe quasi come una illuminazione divina, volle salutare il papà non come faceva ogni sera con il bacio sulla guancia ma baciandogli questa volta quel piede che aveva avuto la forza di far ritorno a casa tra mille difficoltà. E fu allora che accorse che grondava sangue e scoppiò in un pianto dirotto gridando: “Salvate papà, è ferito!”. 
Saverio cercò di calmare gli animi e chiese soltanto una bacinella con una pezzuola bianca e un mix di acqua ed aceto, disinfettò la ferita, la fasciò e diede la buona notte all’intera famiglia.
Nel cuore della notte Saverio si svegliò all’improvviso e invitò Grazia a preparare la macchinetta napoletana del caffè che impiegava un paio di ore prima di vedere trasformata l’acqua in bevanda da caffè. Grazia gli chiese perché tanta fretta e lui rispose: “Domani mattina alle 5 ritorno alla regia azienda, è quello il mio posto di lavoro. Anche le cozze aspettano il mio abbraccio così come ho fatto con voi”.
Mentre gi occhi di Saverio si chiudevano sopraffatti dalla stanchezza, dalla sua bocca uscivano queste parole: “Grazie Signore per avermi dato l’onore di aver voluto che nella mia casa il miracolo di Natale quest’anno fosse a conoscenza dei tarantini e ti ringrazio anche per avermi fatto conoscere quell’angelo di crocerossina il cui nome non rivelerò mai ma che è scritto nella mia mente e nel mio cuore”.
Qui si chiude la storia di Saverio, una storia non inventata, una storia vissuta, e io, crocerossina anonima, posso assicurare ogni lettore che fra tutti gli encomi, i diplomi, le medaglie e i costosi doni ricevuti, ribadisco che la lunga lettera di Saverio è il ricordo più bello, più umano, più commovente, più natalizio che tengo chiuso a doppia mandata nello scrigno del mio cuore. 
 


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