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Michele Emiliano/Ma io volevo volare

Pubblicato da: Categoria: COVER

15
NOV
2013
Conversazione trasversale con l’ex magistrato e sindaco di Bari, che ci parla di quello che avrebbe voluto fare (vedi titolo), quello che ha fatto («con fermezza “materna”») e quello che farebbe (per esempio buttare giù parecchi “mostri”). Una cosa è certa: ha un gran bell’apparato vestibolare
 
 
La stanza sembra troppo piccola per lui, tanto è grande. Parlerà per tutto il tempo durante l’intervista, ma da poche battute pronunciate prima di uscire capiamo che in realtà – chiamala deformazione professionale – nel frattempo si è guardato intorno, ha raccolto indizi e si è fatto un’idea precisa di tutti i presenti. Se avessimo commesso un omicidio in redazione, ci avrebbe sicuramente scoperti. Potenza di un mix di intelligenza, metodo deduttivo e sensibilità che addosso a un uomo così di certo non guasta. Quella che leggerete è un dialogo, più che un’intervista, in cui si è discusso di giustizia e mazzate, mazzette e politica, calcio, sogni, libri. In pratica (quasi) tutto l’umano scibile. 
 
Abbiamo imparato a conoscere Michele Emiliano prima Magistrato, poi Sindaco. Qual è il Michele Emiliano che ci siamo persi?
«Avrei voluto fare il pilota da caccia. Attenzione, non il pilota di linea, ma proprio da combattimento. E’ l’unica cosa che, pur avendo azzardato tutto nella mia vita, chissà per quale motivo ho sempre pensato di non poter realizzare. Qualche anno fa ho provato l’esperienza da pilota. C’è voluto qualche permesso speciale ma, alla fine, ce l’ho fatta, grazie anche a un apparato vestibolare da Top Gun; nel frattempo sono dovuto dimagrire di qualche chilo per entrare nell’abitacolo. Abbiamo volato da Gioia del Colle fino alla cattedrale di Trani. E’ stata una della giornate più belle della mia vita».
 
Guardando quella fetta di Puglia dall’alto, ha visto qualcosa che volentieri avrebbe tirato giù?
«Sì, anche se temo che l’aereo sia un mezzo eccessivo e poco preciso [ride, NdR]. Con Legambiente abbiamo preparato un progetto di legge, che speriamo possa essere approvato  prima o poi da un “parlamento dei giusti”, come lo chiamo io, che consenta ai comuni di individuare nel piano regolatore delle aree dove trasportare i volumi inutili, brutti, superflui. Non si tratterebbe di un atto autoritario ma di una scelta fatta con il proprietario, il quale demolirebbe l’esistente e riporterebbe i volumi in aree costruite predeterminate dal piano regolatore. La Valle d’Itria in particolare avrebbe bisogno di una bella “scrollata”. Anche qui potrebbe funzionare la proposta di  portare nell’abitato quei volumi con un premio. Con il valore edilizio che si realizza daremmo la possibilità di pagare la demolizione e avere la gratitudine del sindaco».
 
Da Livatino e Falcone a una magistratura che, secondo alcuni, condiziona la vita politica del paese. Com’è possibile che in poco tempo si sia passati da una magistratura vittima a una magistratura carnefice?
«Queste sono sciocchezze assolute. Magari la Magistratura fosse un corpo omogeneo influenzabile: in questo modo sarebbe prevedibile e forse eviteremmo anche alcuni errori giudiziari. Certo, sarebbe un incubo però avere di fronte una squadra che risponde a una logica unitaria. Ogni magistrato è un mondo completamente a sé e ha un unico limite: il magistrato del grado superiore presso il quale si può fare ricorso, mettendo in discussione il verdetto del primo». 
 
La magistratura italiana è quella tra i paesi occidentali che ha avuto di gran lunga il più alto numero di vittime… 
«Sì, in un paese dove Cosa Nostra e le mafie connesse facevano parte del patto costituzionale della Repubblica. L’autonomia siciliana, il ruolo di cosa nostra nello sbarco alleato in Sicilia, la promessa della scarcerazione del capo mafia di New York Lucky Luciano: è chiaro che quella mafia, che aveva sempre avuto un ruolo fondamentale ed era stata così importate per lo Stato, quando si vide negare il diritto stesso all’esistenza da una nuova generazione di magistrati che l’aveva confinata nel ruolo di criminale,  ha reagito in maniera furiosa e ci ha ammazzato come mosche. Lo Stato non ha fatto granché perché era molto contaminato. 
La Magistratura in Italia ha reagito a questa radice mafiosa che costituiva la Repubblica Italiana con alcuni processi importanti ancora in corso. Abbiamo reagito al più grande fenomeno di corruzione politica nella storia dell’umanità, perché in Italia la tangente era stata condivisa da tutti i partiti di Governo».  
 
Non dimentichiamo la lotta al terrorismo.
«Abbiamo avuto un terrorismo devastante, di massa. Il terrorismo delle Brigate Rosse non ha avuto paragoni: forse solo l’Eta o l’Ira hanno avuto la stessa capacità militare. Eppure c’è stata da parte della magistratura, nonostante molti magistrati siano morti per mano dei terroristi, una reazione mite perché tutti questi fenomeni sono stati affrontati senza leggi speciali, senza derogare i diritti di ciascuno». 
 
Al di fuori del Suo ruolo, Lei si è mai chiesto se la legge è uguale per tutti?
«L’ingiustizia è dietro ogni angolo. Per questo la sera in cui è morto Dalla Chiesa decisi di fare il magistrato: gliel’avrei fatta pagare, in un modo o in un altro. Gliel’avrei fatta pagare come Topolino con la Banda Bassotti o come Tex». 
 
Più Topolino o Tex?
«Io in realtà non ho mai fatto come Tex, non ho mai toccato una persona fisicamente, né esploso un colpo di pistola, né mai urlato contro un imputato o un cittadino. La maniera più stupida per fare un indagine è farla con modi violenti così come la maniera più stupida di fare il sindaco è quella di pensare di piegare le persone spaventandole. C’è poco da spaventare. C’è da convincere. Io ho gestito 170 collaboratori di giustizia e li ho tutti convinti con dolcezza e fermezza».
 
Carota senza bastone, quindi?
«Né carota né bastone. Le persone si convincono a cambiare o a collaborare con la fermezza e una virtù materna come la fermezza. Serve sempre la fermezza sia nel fare il magistrato che nel fare il sindaco. Sono due mestieri per certi versi simili. Io ho fatto solo il PM, quindi ho sempre gestito istruttorie, decisioni molto rapide; il sindaco è fatto alla stessa maniera, istruttorie molto veloci». 
 
Un politico con il quale le sarebbe piaciuto fare squadra.
«Enrico Berlinguer. Avrei voluto dirgli che abbiamo vinto a Bari, storica roccaforte della destra italiana. Il primo atto politico della mia vita è stato proprio andare al suo funerale. Non avevo mai fatto politica in vita mia, ero iscritto al P.C.I. ma non militavo». 
 
Renzi è il meglio o il meno peggio?
«E’ sicuramente il meno peggio, perché il meglio non esiste».
 
Vedremo mai Emiliano con la maglia biancorossa del Bari?
«No, perché quella maglia per me adesso è diventata un brutto ricordo. Ho visto le fotografie in cui durante il ballottaggio del 2009 la famiglia Matarrese, temporaneamente detentrice e non proprietaria di quella maglia, consegnò a Berlusconi la maglia del centenario del Bari con applicato sulla pancia il simbolo del PdL e sulle spalle il nome di Berlusconi. Tra l’altro lo ricordano tutti: Berlusconi confuse la maglia con quella del Napoli. E’ stato un brutto gesto quello. Io li ho perdonati, però non mi si può chiedere di fare il tifo per una squadra che sostanzialmente non è più la stessa, e che avrebbe bisogno di un processo simile a quello con cui gli antichi greci facevano tornare alla sacralità un luogo che era stato profanato. Un’ecatombe, insomma.
Un’altra cosa che mi ha fatto arrabbiare è stata quando Checco Zalone, nel 2008, compose uno stupendo inno del Bari. http://www.youtube.com/watch?v=Y6iIQ03GjVo La società della squadra, (siccome questo regalo fu fatto dall’attore durante la festa di Capodanno organizzata dal Comune, quindi fu data a me la possibilità di offrire al Bari questo inno), per antipatia nei confronti del Sindaco lo rifiutò. Ancora adesso si mangiano le mani perché il Bari non avrebbe avuto probabilmente il più bell’inno di tutte le squadre italiane, ma sicuramente quello più trendy, grazie al successo stratosferico di Checco Zalone». 
 
Se parliamo del Bari non possiamo non parlare di Antonio Cassano. Lei qualche ceffone glielo avrebbe dato?
«Io non ho mai preso a schiaffi nessuno o quanto meno non l’ho fatto in modo premeditato. E’ una cosa che non mi piace. Antonio mi ha dato delle gioie straordinarie. Una volta sono andato a Madrid, invitato da lui, subito dopo la discussione avuta con Capello per via dell’imitazione che Cassano aveva fatto del suo allenatore. http://www.youtube.com/watch?v=f4gjMzcFIZw Sono andato a confortarlo, anche se non servì a molto. Lui è un ragazzo con un cuore immenso, di grande tenerezza. E sono convito che da quando è diventato marito e papà, queste sue caratteristiche stanno crescendo. Però come noi tutti baresi, lui ha un cuore selvaggio. Anche io sono un po’ come lui, facciamo istintivamente delle cose delle quali poi ci pentiamo. Quindi se Antonio riuscirà a metabolizzare questa sua verve, e la canalizzerà positivamente, farà delle cose straordinarie come uomo oltre che come calciatore, perché giocare a pallone non è tutto nella vita. Alla fine dei conti però non mi pare abbia commesso chissà quale nefandezza; nel calcio c’è stato chi ha fatto molto peggio: c’è chi si è dopato, chi si è venduto le partite, chi ne ha combinate di tutti i colori con i compagni. Lui non ha mai fatto queste cose. Si deve tenere conto, poi, che è partito con lo svantaggio di nascere nella contesto di una Bari vecchia dove i bambini di allora anziché giocare a pallone venivano messi a spacciare la droga. Lui è stato formidabile a non essere travolto dal successo ed è arrivato a giocare nei maggiori club europei e in Nazionale».
 
 
 
 
A microfono spento
Io, Dostoevskij e Livatino
Non solo letteratura, ma anche giustizia sociale, amici e (quasi) beati a margine dell’intervista
 
Parliamo della Sua città. Bari è al centro di tre romanzi che sono usciti in questo mese, a firma di Raffaele Nigro, Gianrico Carofiglio e Antonella Lattanzi. Parto da Raffaele Nigro e dal suo Museo delle cere che dà il titolo al libro: il tema è quello del crollo dell’utopia socialista. 
Quali sono le sue utopie? Anche per lei sono crollate le utopie socialiste?
«Non ho mai rinunciato a nessuna utopia. La mia utopia è fatta di bene/male, giusto/ingiusto, felice/infelice, vero/falso. D’altronde ho un impianto ideologico che non è lo stesso della sinistra italiana. Quindi sono contentissimo del fatto di non aver vissuto in un Paese del socialismo reale. Ogni volta che mi reco in quelle situazioni prendo in giro i miei compagni ai quali dico: «Menomale che vi abbiamo contenuto». Ma sono un uomo di sinistra nel senso che per quanto un uomo possa essere abile e intelligente, questo non può tramutarsi in una permanente supremazia certificata dalla legge dal diritto di proprietà, dal diritto di iniziativa privata. Serve un meccanismo di redistribuzione delle opportunità che quindi premi i più deboli, non i più forti. Questo è il contrario della destra che pensa che il merito sia un valore tanto da essere premiato ulteriormente. Non solo si è bravi, intelligenti, belli: si deve anche avere il privilegio di pagare poche tasse, di non avere rotture di scatole, di non dovere condividere con gli altri ciò che è stato capace di fare. Ma si finisce male con la rappresentazione del sè che sovrasta tutto il resto. Anche l’uomo migliore del mondo ha un bisogno dannatissimo degli altri;  anche un uomo eccezionale senza l’amore, l’affetto, il consenso, la stima, il rispetto muore male, muore solo. Muore come Scrooge, il protagonista di “Canto di Natale”,  la bella favola di Dickens».
 
Il suo libro del cuore?
«“Delitto e castigo” di Dostoevskij.  Per me la giustizia nel limite dell’umana possibilità e la colpa sono due elementi che fanno parte della mia educazione. E’ chiaro che quel libro per la prima volta mi ha fatto simpatizzare per un assassino, ha sconvolto le mie categorie. E’ chiaro che conoscere Dostoevskij è stato come conoscere per la prima volta una donna o un amico che mette in discussione i pilastri della saggezza». 
 
Di Gianrico Carofiglio cosa ne pensa?
«Io e Gianrico siamo amici fraterni e i suoi libri li leggo per curiosità, per vedere cosa combina. Sono totalmente autobiografici e la metà dei fatti descritti sono capitati a me e a lui. Poi lui li rimescola come sa fare un bravo scrittore. Ho avuto la fortuna di avere un rapporto di amicizia strettissima con lui e, per una vicenda molto diversa, sono stato molto amico di Rosario Livatino: tre mesi fa sono andato a deporre alla sua causa di beatificazione.
Alla fine potrò dire di avere un amico scrittore e un altro che è diventato beato, forse. Se la mettiamo sul piano dei risultati, sono contento per il successo di Gianrico mentre per Rosario avrei preferito avere un amico di 61 anni piuttosto che un beato di 38». 
 
 


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