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Spigolature martinesi/Storia di un contadino-poeta e del muro dei diavoli

Pubblicato da: Categoria: COVER

22
FEB
2018

Saliva dal mare Jonio per finire sulla costa adriatica: ecco la leggenda del muro che andava ‘da mare a mare’, eretto nel tempo di una sola notte dai diavoli

La prima persona che, arrivando da Martina a Franzullo, conobbi il primo ottobre del 1956 fu Francesco, o Giaffrancesco come preferiva lui, proprietario della ‘scuola’ sede del mio secondo anno di servizio come insegnante elementare; Franzullo, dov’era una delle oltre 50 pluriclassi sparse nell’agro martinese, era il nome della contrada, allora ritenuta la più scomoda da raggiungere fra quelle dipendenti dal 2° Circolo Didattico e la più disagiata per una serie di motivi, primo fra tutti la viabilità; la ‘scuola’, infine, era semplicemente un locale di più o meno recente costruzione, la classica ‘lamia’, anzi ‘lamiodda’, grande quel tanto sufficiente per contenere una decina di vecchi banchi biposto, sgangherati sbertucciati e scoloriti, provenienti dalle aule cittadine e destinati a passare gli ultimi anni di vita in una scuola di campagna.
Raggiungere Franzullo per chi era sfornito di mezzo proprio era una vera impresa. Con la Sud-est, cioè l’autobus o ‘corriera’, si raggiungeva il villaggio di san Paolo; qui bisognava inforcare la bicicletta e pedalare lungo una strada sterrata, sassosa d’estate ma fangosa d’inverno, che attraversava La Petrosa; arrivati alla Croce del bivio di Pizzo del Vento, prendere a mano destra un tratturo che, dopo un saliscendi di tre curve, diventava sentiero fino alla ‘scuola’, dove tra gli scolari con la cartella a tracolla mi aspettava anche il proprietario.
Francesco, ultracinquantenne alto e ancora di buona prestanza fisica, fornito di buon eloquio e un livello culturale indubbiamente superiore alla media, era il capocontrada. Uno dei tanti contadini-proprietari, nella miriade di contrade della campagna martinese, investiti di una speciale autorità e costituenti una vera e propria categoria rurale di ‘privilegiati’,  non solo nei rapporti con l’Amministrazione della città, ma anche con i vari Uffici comunali, le Associazioni, i Sindacati, le Congreghe religiose e le Parrocchie di appartenenza.  Era, insomma, uno di quelli che ‘contavano’.
Aspettava che gli portassi la ‘Gazzetta del Mezzogiorno’ per andare a leggersela in pace seduto davanti al trullo. Inforcava un paio di occhiali da vista e, miope com’era, si immergeva nella lettura; leggeva tutto, anche le pubblicità e i necrologi; poi, prima che ripartissi in bicicletta per san Paolo dove riprendere la ‘corriera’ per la città, mi riportava il giornale ben piegato e gli piaceva intrattenermi con i commenti sui fatti principali.  
Francesco era una miniera inesauribile di riflessioni proverbi e ricordi dei tempi andati, ed aveva l’abitudine di mettere in rima i suoi pensieri. Cosa singolare, considerati i tempi e il grado d’istruzione dei contradaioli; ma non per lui che mi leggeva le poesie composte la sera o le notti passate in bianco, come al tempo delle lunghe veglie nella trincea sul Pasubio. Erano: una lunga ‘ode’ scritta in occasione dei fatti d’Ungheria; una favola esopica sulle formiche laboriose ed i grilli canterini; una preghiera a san Martino per tenere lontane la grandine e le gelature e un’altra a santa Barbara contro i lampi e i tuoni; una satira politica anticomunista. Insomma, il suo ‘debole’ era cedere di tanto in tanto all’ispirazione poetica, e questo gli aveva creato, soprattutto negli ambienti di stretta osservanza democristiana, la fama di poeta. Era uno dei pochi che poteva, come si dice oggi, dare del tu a don Alberico; e non era poco. E fra i tanti versi creati dalla sua fertile fantasia rimase per lungo tempo famosa la petizione indirizzata all’onorevole Motolese, che fece stampare dal tipografo Pierino Dragonetti in alcune decine di copie, distribuite ad amici nemici e parenti. La prima ed unica pubblicazione dei suoi versi, da lui stesso declamati sul palco eretto a san Paolo per l’inaugurazione della Colonia Estiva, voluta da un altro Motolese, don Guglielmo, arcivescovo della diocesi di Taranto.
Giaffrancesco era anche la memoria storica di quel posto sperduto, al confine meridionale dell’agro martinese, stretto tra il Vallone dell’Inferno e la Gravina di San Domenico, sulle pendici più alte dei monti del Duca, dove si trova il monte Trazzonara che ne è la punta più alta. Conosceva come le sue tasche quel territorio, fatto di nomi magici evocanti storie d’un tempo, e una mattina tiepida e luminosa di fine primavera mi accompagnò con la scolaresca fino alla Grotta delle Cento Camere, all’estremo limite meridionale della contrada, dove gli aspri dirupi precipitano sulla campagna che si stende fino a Grottaglie e da qui fino al mare di Taranto. Nella prima ‘camera’, un antro ciclopico dell’età neolitica che si apriva in altre ‘camere’ minori, cento secondo la credenza popolare, due secoli prima avevano trovato rifugio i briganti di Papa Ciro Annicchiarico, il prete grottagliese spretato che alternava la celebrazione della messa in latino maccheronico con ruberie ed efferati omicidi.
Ma un altro posto Francesco volle che visitassimo a levante di Franzullo, nei pressi della masseria San Domenico, non solo per capire perché quel territorio, strappato alle macchie e alle pietre per piantarvi la vite, fosse tra i meno generosi dell’agro; ma perché una di quelle contrade fosse addirittura chiamata La Petrosa. Per spiegare tutto questo dovette raccontare anche la storia del ‘muro dei diavoli’, una delle più poetiche e forse la più bella del ciclo di leggende virgiliane, che in quei tempi mi interessavano particolarmente. Conoscevo già quella storia nelle versioni di Massafra, Statte e altri paesi salentini; e sapevo che a Martina essa era collegata al noto toponimo ‘Paretone’, semplice volgarizzazione del termine storico ‘parietem grossum’ descritto nel 1528 dal notaio tarantino Francesco Patiello nel suo Inventario dei beni dell’Università di Taranto. Fu necessario, allora, seguirlo fin nei pressi della masseria San Domenico per sostare davanti ad un rudere di grossi macigni, alto più di quattro metri, largo almeno cinque braccia e lungo alcune decine di passi. Era quel che rimaneva del muro che andava ‘da mare a mare’, eretto nel tempo di una sola notte dai diavoli. Saliva dal mare Jonio per i monti del Duca fino al monte Scudàri presso Villa Castelli; quindi attraversava la contrada San Domenico e proseguiva fino alla masseria di San Cataldo presso Ceglie Messapica; poi toccava la masseria Ottava tra Fasano e Ostuni e scendeva fino a Montalbano per finire sulla costa adriatica.
Ma questo venni a saperlo solo molto tempo dopo. Francesco, invece, quel giorno  raccontò soltanto la storia del mago Virgilio che possedeva il libro dei comandi; dei diavoli che erano usciti a migliaia da quelle pagine per spietrare il territorio e costruire il muro in una sola notte. Ma non tutti riuscirono a finire il lavoro nel tempo stabilito; anzi, quelli di Franzullo, della Petrosa, di Trazzonara e di Specchia Tarantina, nella fretta di rientrare nelle pagine del libro dei comandi prima che la stella di Lucifero uscisse a rischiarare il cielo, lasciarono sul posto le ultime pietre dissotterrate. Perciò, in quest’angolo di mondo fatato, abitato dal mago più grande di tutti i tempi e da migliaia di esseri infernali ai suoi comandi, si trovano più pietre che terra. Erano le pietre destinate al ‘muro dei diavoli’ che, mentre i miei venti  scolari spauriti pendevano dalle labbra del narratore, la mia Comet fermava in un fotogramma in bianco e nero. Forse la sola immagine che oggi resta di quel rudere.
Un giorno o l’altro riaprirò la busta arancione contenente la fotografia del ‘muro dei diavoli’, stampata dallo studio fotografico di Brifas in via Taranto; l’ode a don Alberico, pubblicata da Pierino Dragonetti che aveva la tipografia accanto alla chiesa di Cristo Re; ed alcuni fogli di quaderno, in tutto una decina di paginette sgualcite, con le poesie autografe di un contadino che era capocontrada e metteva in versi i suoi pensieri, firmandoli con due distici finali a rima baciata.



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