Per una vita aveva fatto il fotografo e ancora continuava a dedicarsi alla professione. Non perché avesse bisogno di lavorare per sopravvivere, ma perché quel lavoro gli piaceva e la sua macchina fotografica per lui era una compagnia
Aveva iniziato a lavorare molto giovane, con una vecchissima Leica del 1936 e poi con una Rolleiflex del 1960. Con il fratello aveva aperto un piccolo negozio per la vendita di rullini, flash, macchine fotografiche e cornici. Nel retro, dietro una pesante tenda nera, avevano installato il laboratorio per lo sviluppo dei negativi e in questa camera oscura, illuminata da una lampada che emanava una tenue luce rossa, Edoardo, quando non era in giro per immortalare matrimoni, battesimi, cerimonie o eventi familiari, era sempre rinchiuso lì dentro tra vaschette contenenti sviluppi e fissaggi. Estraeva pellicole e rullini e le sviluppava, poi le appendeva come dei panni stesi ad asciugare a delle cordicelle tese tra le pareti. Gli affari andavano bene, il fratello si occupava principalmente della parte commerciale e raramente usciva per dei servizi fotografici. Agli inizi degli anni ’70 però le Polaroid con sviluppo istantaneo cominciarono a togliere clienti al negozio e successivamente le foto a colori dettero definitivamente il colpo di grazia. A quel punto il fratello decise di chiudere bottega e di trasferirsi con la famiglia a Milano. Anche se a malincuore Edoardo fece come aveva deciso il fratello, perché da solo non se la sentiva di continuare. Vendettero a pezzi l’attività: il locale a un barbiere, l’attrezzatura a un fotografo amatoriale e le macchine fotografiche furono cedute sottocosto e tutto il ricavato diviso equamente. Partito il fratello e rimasto solo, Edoardo continuò la professione lavorando per dei giornali locali e per i vecchi clienti che si rivolgevano ancora a lui. Piano piano le cose migliorarono e allora decise di tentare ancora il passo e aprire un nuovo negozio. Prese come aiuto un giovane praticante che mandava allo stadio, alle cerimonie o a immortalare quelle autorità che i giornali gli indicavano; la moglie gli dava una mano in negozio e si occupava della vendita e della noiosa burocrazia, mentre lui, in assoluta autonomia, con la sua nuova macchina digitale usciva alla ricerca di scorci o soggetti da fotografare. Il fratello da Milano gli telefonava e gli scriveva raramente e solo per dirgli che andava tutto bene: aveva aperto un laboratorio per servizi fotografici ad alto profilo e lavorava con aziende e multinazionali che lo gratificavano molto. Edoardo, non essendo così impegnato come il fratello, un giorno decise di fargli una sorpresa e andò a trovarlo. Sapendo quanto gli piacessero la parmigiana, i mostaccioli e i latticini di Martina Franca, mise tutto in una borsa termica e partì. Arrivato alla stazione centrale di Milano sali su un taxi e si fece portare in via Quintolese, una traversa di via Ripamonti, alla periferia della città. Dopo una lunga ricerca riuscì a trovare il palazzo, che lui si aspettava moderno, una specie di grattacielo, invece era un edificio antico, fatiscente, con la facciata malandata, il portone pieno di scritte e i nomi sulla pulsantiera del citofono illeggibili. Salitele ripide rampe di scalesino al ballatoio esterno, su una porta scorse il cognome del fratello. Bussò ma non ebbe risposta. Si affacciò invece una donna per chiedergli chi cercasse. Lui le domandò se conosceva la famiglia del fotografo Decatullo e la vecchietta gli rispose di no:“Ma quale fotografo, dietro quella porta abitano solo dei terùn”. Disse che uscivano il mattino presto e tornavano la sera tardi. Il marito andava in giro a fare le consegne per un grande magazzino, la moglie era a servizio da dei signori e i figli restavano dalle suore sino a sera. Edoardo uscì dal portone incredulo e sgomento: possibile che quella signora stesse parlando proprio della famiglia di suo fratello? Quando nella tarda serata tornò in quel palazzone a schiera e bussò alla porta gli venne ad aprire un bambino con un forte accento lombardo e poi si affacciò anche lui, il fratello. Si abbracciarono, ma Edoardo se ne sarebbe voluto scappare subito perché aveva capito che al fratello aveva provocato solo una infinita vergogna. Quando aprì la borsa termica ed estrasse tutto quel ben di Dio portato dalla Puglia, gli unici allegri e contenti sembrarono i due ragazzini, perché si tuffarono su quelle prelibatezze profumate che non sospettavano nemmeno potessero esistere.
Il giorno dopo, uscito dall’albergo chiamò un taxi e tornò in via Quintolese, mise in una busta tre banconote da cinquecento euro e le infilò sotto la porta di casa del fratello, poi si fece portare all’aeroporto perché non vedeva l’ora di allontanarsi da quella miseria, da quella estrema solitudine e umiliazione in cui versava il fratello. Ripartì senza rivedere né sentire nessuno. Tornato a casa, senza dire nulla a nessuno sulle condizioni del fratello, riprese il suo lavoro di sempre.
Gli anni successivi passarono in fretta e un giorno la moglie gli disse che non se la sentiva più di continuare ad occuparsi del negozio, dei clienti e dei fornitori. Edoardo prese tempo, ma alla fine decise. Erano passati più di cinquant’anni da quando aveva acquistato la sua prima Leica III e pensò che forse era arrivato il momento di smettere e passare la mano, ma a chi? I figli si erano laureati, sposati e trasferiti altrove. Allora chiamò il suo più anziano collaboratore e gli fece un bel discorso: avrebbe lasciato l’attività nelle sue mani, ma si sarebbe dovuto impegnare a portare avanti seriamente il lavoro sin lì svolto. Lui avrebbe fatto solo il supervisore, una specie di socio onorario. Il collaboratore non credendo alle sue orecchie, quando capì di cosa stesse parlando il datore di lavoro, per poco non svenne.
Dopo quella visita, con il fratello non si erano più sentiti; non avevano più avuto animo di chiamarsi. Seppe però che si era trasferito in un’altra casa, in un’altra zona della città e che i figli erano andati a vivere da soli. Allora smise anche di inviare quei regali in denaro che faceva ai nipoti per le feste e per il loro compleanno.
Edoardo ora era più libero, meno indaffarato, ma quando usciva di casa, anche per fare solo una passeggiata, portava sempre con se la sua modernissima macchina fotografica digitale computerizzata con un zoom enorme, che lui continuava comunque a chiamare “la mia Leica”, anche se questa era di un’altra marca e di un’altra generazione. Adesso, a 78 anni, un po’ stanco ma realizzato, pensava a quanta strada aveva fatto espesso tornava con la mente ai suoi inizi, a quella camera oscura illuminata con la luce rosso pallido; a quelle bacinelle che lui maneggiava con cautela, ma con altrettanta scioltezza. Con gli anni tutto era cambiato: adesso si mirava, si scattava e tutto veniva archiviato automaticamente e scaricato nel PC. Progresso, velocità, automatismo, si certo, ma il piacere di sviluppare quei rullini, vedersi comparire tra le mani l’immagine mentre si sviluppa, maneggiare quei negativi, quelle foto in bianco e nero; quel fascino, quella poesia,chi potrà restituirli? Dove erano finiti?