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NOSTALGIA di Oscar Nardelli

Pubblicato da: Categoria: Curiosità

28
APR
2016
I tre giorni milanesi dedicati alla presentazione e alle offerte dei pacchetti vacanze, che gli operatori turistici pugliesi stavano mettendo a disposizione per la prossima stagione estiva, si stavano concludendo in un lussuoso hotel della città con una cena, offerta dai ristoratori della Valle d’Itria, a base di prodotti tipici della Regione.
Mentre stavo cenando e conversando in compagnia di altri giornalisti e addetti del settore, a un tavolo vicino scorsi una signora che stava chiacchierando amabilmente con i suoi commensali. Ero talmente attratto da quella figura che da quel momento non riuscii più a seguire quello che stavano dicendo i miei convitati. La guardavo e mi sembrava che avesse qualcosa di molto familiare ed ero anche certo di averla già conosciuta. Così, in un momento di pausa, tra una portata e l’altra, mi alzai e con faccia tosta mi avvicinai al suo tavolo e, interrompendo la loro conversazione, dissi:
<Mi scusino signori se mi permetto di disturbare, ma vorrei chiedere una cosa alla signora seduta qui con voi>.
Poi, rivolgendomi direttamente a lei, con un filo di voce e con non poco imbarazzo, le chiesi:
<Sei proprio tu Natalia o sto prendendo una clamorosa cantonata?>.
Lei prima si voltò piano verso di me poi, riposte le posate, si alzò e mentre i nostri sguardi si incrociarono io mi sentii sopraffatto da una emozione fortissima e inaspettata.
<Giordano. Ciao>.
Mi rispose, come se non credesse ai suoi occhi, mentre mi stringeva la mano. Rimanemmo per qualche secondo così, a fissarci increduli. E in quell’attimo notai una piccolissima ruga al contorno delle labbra, ma dopo tanti anni era sempre lei: molto bella e attraente. Forse di più di come la ricordavo.
<Come stai?>, ci chiedemmo, con un po’ di impaccio reciproco.
<Bene, grazie e tu?>, mi rispose, sfoderando quel suo sorriso che da sempre le illuminava il viso.
Io avrei voluto porle tante domande, magari sedermi accanto per continuare a parlare con lei, ma rendendomi conto che la cosa sarebbe stata imbarazzante per tutti e due, ci rinunciai. Ma prima di tornare al mio tavolo le feci promettere che a fine serata ci saremmo rivisti: almeno per augurarci la buona notte e se possibile fare due chiacchiere.
Tornato al mio tavolo, mentre le portate si succedevano senza sosta e il vociare della sala mi giungeva come un fastidioso ronzio, continuai a sbirciare verso di lei e di colpo mi sentii proiettato a ritroso nel tempo. Così lontani dalla nostra età, tanto lontano che i ricordi si accavallarono confusamente nella mia mente.
Siamo stati fidanzati o meglio … fidanzatini. Quando ci mettemmo insieme eravamo poco più che bambini alle prese con i primi batticuore. Poco più di due ragazzini che scoprivano per la prima volta cosa volesse dire volersi bene. Un amore nato durante il primo anno delle superiori e forse per questo ancora così vivo, unico e indimenticabile.
Ci eravamo conosciuti a una festa, a un compleanno di una nostra comune amica, e dal giorno seguente cominciai ad aspettarla sotto casa per poterla accompagnare a scuola, darle un bacino innocente sulle labbra e poi, sperando di arrivare prima che la campanella smettesse di suonare l’inizio delle lezioni, correre trafelato verso il mio istituto.
La nostra storia durò un paio d’anni o poco più, poi, come accade a tanti ragazzi di quell’età, dopo un periodo di assoluta felicità: innamorati come eravamo ci sembrava di vivere sospesi in una bolla di sapone e solo uno per l’altra, perché per noi tutto il resto non contava, cominciò a farsi strada una sorta di disagio comune che probabilmente ricalcava, se non accentuava, le nostre divergenze. E allora intervenne anche il malessere, unito alla convinzione di non sentirci più tanto bene assieme, che portò alla rottura.
A una gita scolastica, in Grecia, avevo fatto coppia fissa con una mia coetanea e lei lo venne a saperlo e così l’ultima sera che ci vedemmo fu un incontro difficile e a tratti anche brusco, in cui nessuno dei due riusciva più a capire l’altro: quando parlavo io lei ciondolava la testa tra le spalle e quando lei replicava io mi trovavo a fare altrettanto.
<Non abbiamo più nulla in comune, tranne i ricordi>, aggiunse, prima di pronunciare quel suo no sovrano. Un no che secondo lei non aveva bisogno di nessun’altra spiegazione e con il quale mi fece precipitare in un malessere assoluto. Sentivo di volerle ancora un mondo di bene e cercai di riconquistarla, ma lei era diventata impenetrabile: una porta chiusa, una persiana serrata che non lasciava trapelare nemmeno uno spiraglio di speranza. E smisi di insistere quando ebbi la sgradevole sensazione che mi stesse parlando come sotto dettatura, come se qualcuno l’avesse indottrinata o meglio le avesse suggerito come fare per mandarmi al diavolo con un certo savoir-faire.
Aspettando che i camerieri la smettessero di ingombrare il tavolo con le loro infinite portate e gli oratori, che si stavano susseguendo al microfono, la smettessero di assordarmi, io continuai a girarmi verso Natalia e, ricordando quella sua frase, pronunciata quando avevamo diciassette anni o poco più: “non abbiamo più nulla in comune, tranne i ricordi”, mi venne da sorridere al pensiero che due ragazzi di quell’età potessero avere solo da condividerei ricordi.
Dopo quell’ultimo burrascoso giorno ci eravamo persi di vista e ognuno aveva iniziato un percorso diverso. Percorso che aveva anche contribuito ad allontanarci definitivamente, sia nei sentimenti che dalla nostra città. Lasciato da Natalia cercai nuove amicizie e mi tuffai in altre storie più o meno coinvolgenti e poi, dopo il diploma, mi trasferii, prima per frequentare l’università e poi per lavoro, in un’altra città. Lei intanto aveva continuato a coltivare la sua passione per il giornalismo e così scriveva per dei giornali locali e lavorava anche per una TV regionale. Seppi anche che si era sposata e con il marito era andata ad abitare nello stesso stabile dei genitori, in un appartamento di proprietà di questi ultimi, ma il matrimonio era durato il tempo di mettere al mondo un figlio, poi, quando vennero alla luce tutte le magagne e le bassezze del marito, il quale le aveva fatto credere di essere un imprenditore affermato, nonché laureato in architettura, ma che del diploma di laurea Natalia non né trovò traccia e che in definitiva era solo uno squattrinato che viveva alle spalle della madre, ex nobile ed ex possidente, lo cacciò di casa e si trasferì con il piccolo al piano superiore, con i genitori. Ma per sempre le rimase una delusione e una rabbia incontenibile per essersi lasciata ingannare nei suoi più intimi sentimenti.
E ora, dopo tanti anni, a un migliaio di chilometri da dove ci eravamo conosciuti, eccomi qui ad aspettare che la kermesse finisse per incontrarla, ma per chiederle cosa? Questo non lo sapevo, ma ero sicuro che anche a lei avrebbe fatto piacere fermarsi e parlare con me.
Finalmente, tra uno sbadiglio generale e gente che se ne stava andando, la cena ebbe termine, ma Natalia restò ancora al suo tavolo a parlare fitto fitto con quanti le stavano ronzando attorno, e io non potei fare a meno di pensare che lo stesse facendo per me, per dimostrarmi quanto fosse una persona impegnata. Verso mezzanotte, seduto al mio tavolo e ormai da solo, la stavo ancora aspettando.
Quando la vidi alzarsi e venire verso di me, non potei fare a meno di pronunciare un “finalmente” liberatorio, poi mi alzai anch’io per andarle incontro. Sorridente, un po’ provata dalla lunga serata, ma sempre elegante, bella e con la sua voce dolcissima, esordì:
<Scusami Giordano, ma proprio non riuscivo a liberarmi. Public relations, lo sai come vanno queste cose… Ma ti ringrazio per la pazienza che hai voluto dimostrarmi>.
Io le sorrisi, le presi la mano, la baciai sulle guance e le sussurrai un ridicolo: non c’è di che.
<Sono stanca morta. Sono state tre giornate infernali e lo hai visto anche tu, ma non voglio annoiarti. Dimmi piuttosto di te: come stai? Cosa ci fai qui? Ti stai dedicando al turismo anche tu? Raccontami, dai>.
Ci spostammo in una saletta appartata, ma mi sentivo a disagio, fuori posto. Tutto mi sembrava così anacronistico, surreale e allora le chiesi dove alloggiasse e se potevo accompagnarla. Lei disse di sì, che le avrebbe fatto piacere, ma aggiunse, forse per smorzare eventuali mie fantasticherie, che era stanchissima e che non vedeva l’ora di andare a letto e che se avesse dovuto chiamare un taxi a quell’ora chissà quanto avrebbe dovuto aspettare.
Uscimmo per dirigerci verso il suo albergo e forse perché tutti e due stavamo cercando il bandolo di quella matassa che si era aggrovigliata tanti anni prima, in gioventù, o forse perché non eravamo pronti per affrontare un discorso che nessuno dei due aveva previsto,in macchina non pronunciammo che brevi frasi di circostanza.
<Bella macchina. Vedo che te la passi bene o sbaglio?>, mi disse Natalia, rompendo quel silenzio che stava diventando imbarazzante. Io lasciai cadere la domanda e a mia voltale feci delle domande ma lei, senza darmi risposta, chiese se fossi sposato.
<Pessimo marito e pessimo padre>, le risposi. E poi le raccontai che mi ero sposato e che avevo anche due figli. Ma che mi ero separato ed ero tutt’ora single.
<Forse perché non mi riesce di mantenere una relazione stabile>, le dissi. Poi girandomi verso di lei conclusi: <Sarà colpa del mio lavoro che mi porta sempre in giro, o forse perché non ho ancora incontrato la persona giusta. Non lo so, ma una cosa è certa: il matrimonio mi andava stretto e di fare il padre non m’è riuscito>.
<Potrebbe anche essere che sei rimasto semplicemente il dongiovanni di un tempo>, mi rispose, guardandomi sorniona e sorridendomi con malizia.
Arrivati davanti al suo hotel pensai a quella storia della Grecia: possibile che se ne ricordasse ancora, dopo tanti anni? Poi spensi il motore, ma seduti in macchina ebbi la sensazione di parlare con un’estranea. Un’altra Natalia. Una Natalia ormai inesorabilmente cambiata e lontana. Sempre bella, ma riconoscibile solo dal timbro della voce e dai suoi occhi dolci e color del mare. La vita l’aveva segnata profondamente: il figlio se lo era visto sfuggire tra le dita perché, mentre lei era costretta lontano e in giro per lavoro, lui era cresciuto con i nonni e ora si trovava all’estero e viveva con una compagna che lei non conosceva ancora. Risposarsi? No. Non ci aveva più pensato. Un matrimonio, anche se breve, le era bastato. Volle anche precisare che verso gli uomini, verso tutti gli uomini, provava un’avversione, una repulsione inspiegabile, ma profonda. Poteva lavorare con loro, collaborare a qualsiasi progetto o all’allestimento di questo o quell’evento, ma appena sentiva incombere su di se la minaccia di un complimento non dovuto o di una parola che in realtà voleva significarne altre, si chiudeva a riccio e, a costo di passare per una persona intrattabile, non permetteva più a nessun uomo di avvicinarsi.
Prima di salutarci le chiesi se il giorno dopo le avrebbe fatto piacere pranzare con me. Così avremmo potuto continuare a parlare dei vecchi tempi, di quando eravamo giovani e credevamo di poter sottomettere il mondo ai nostri voleri. Le detti anche il numero del mio cellulare e lei mi fece registrare il suo, ma poi, stringendo le mie mani tra le sue e guardandomi attraverso la tenue luce che diffondeva un lampione della strada, mi disse che le aveva fatto piacere, molto piacere, avermi incontrato dopo tanti anni e che aveva provato un’emozione fortissima nel vedermi, … ma: <Lasciamo stare Giordano>, la sentii dire sottovoce. E sembrava quasi volersi scusarsi.
<Perché dovrei lasciare stare Natalia? Mi stai annoverando tra tutti gli uomini che ti hanno fatto del male e perciò vuoi allontanare anche me?>, le chiesi, stringendole anch’io le mani. Ma lei, sorridendo e scuotendo il capo come era usa fare da ragazzina, aggiunse che con me non sentiva il bisogno di doversi chiudere a riccio, anzi, era felice di poter parlare con me. Era solo una questione di età: di troppi anni trascorsi tra ricordi sempre presenti, ma ormai inesorabilmente lontani, smarriti tra le pieghe di quella serena gioventù che non poteva più tornare dall’oblio.
<“Non abbiamo più nulla in comune, tranne i ricordi”. Te la ricordi questa frase, Damiano? Te la dissi tanti anni fa, quando pensavo che l’avvenire sarebbe stato tutto un’altra cosa. Diverso da quello che in realtà si è rivelato. Non te la prendere, ma non me la sento di rivangare un passato che mi sta intristendo. E’ stato bello, te lo ripeto, incontrati e rivederti, ma non abbiamo più diciassette anni>.
Poi si sporse verso di me, mi dette un bacio sulla guancia e aggiunse: <Sei uno dei pochi ricordi belli della mia vita. Lascia che rimanga tale, Damiano>.
La seguii con lo sguardo sino a che sparì dietro la porta a vetri del suo hotel e poi rimisi in moto per andare a dormire. Ma non avendo sonno né sentendomi stanco, continuai a girovagare per quella Milano notturna, ormai quasi deserta e per me sconosciuta.
Mentre i primi raggi di sole stavano cercando di forare la leggera nebbiolina che stava avvolgendo una Milano ancora silenziosa, venni svegliato dal clacson di un camion a cui stavo impedendo il transito. Mi ero assopito in macchina, sul ciglio di un naviglio.
 


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