MENU

LA SOLITUDINE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

27
FEB
2017

La città di notte è come un mondo abbandonato. E mentre le ombre avevano già trasformato il cielo in un firmamento di stelle e le strade in unluccichio di fari e insegne luminose, si era appena conclusa una cena trascorsa all’insegna della grande allegria. Amici di vecchia data, qualcuno dal liceo. Marcello, amico di sempre, parlava poco e chi lo conosceva diceva di lui che era una persona pedante ma che sapeva il fatto suo. Altri conosciuti più avanti, ma tutti intimamente legati tra noi.
Finita la cena, ci fermammo all’esterno del locale, sulla strada, per formare il solito capannello e continuare adirci le solite banalità, a raccontarci le ultime barzellette, le ultime volgaritàprima di andare a dormire.
Mentre parlavamo e qualcuno ci stava già salutando e allontanando, Marcello, l’amico d’infanzia, si avvicinò e mi chiese se mi andava di fare due passi con lui. Disse che non aveva sonno, che aveva bevuto forse un po’ troppo e che aveva bisogno di fare due passi, di stare all’aria aperta.
Marcello era alto e robusto, capelli lunghi e ricci, ben rasato, ma il suo viso sembrava affaticato e di un pallore smorto; portava gli occhiali e al dito l’anello d’oro massiccio che era stato di suo padre. Era elegante, giacca e cravatta sotto un soprabito blu e i suoi gesti erano lenti, quasi stanchi, Era l’amico di sempre, quello dei primi giochi in cortile, quello delle prime confidenze. Assieme abbiamo fatto tutte quelle cose senza senso che si fannoda ragazzi.
Gli risposi di sì e, salutati tutti gli altri ementre un vento fresco ci accarezzava il viso, ci incamminammo su quel lungo viale ormai deserto e scintillante di semafori lampeggianti. Camminava con calma, a passi lenti, senza affrettarsi, guardando la punta delle sue scarpe. La notte era imbevuta di silenzio, il tipico silenzio notturno, rotto qua e là dal rumore di una sirena lontana o dai tacchi di qualche ombra che velocemente attraversava la strada.
Passammo davanti a una panchina su cui era seduta una coppia, fusa in una sola macchia nera.Lei in braccio a lui. Si tenevano le mani, si stringevano, si dicevano delle cose, anche se in quel momentosembravano superflue, inutili. Le parole non si capivano ma si intuivano. I loro corpi, il loro stringersi, i loro baci, il loro ansimare parlavano per loro.
Lei aveva la gonna alzata, le gambe scoperte, non se ne curava e teneva la testa affondata tra i capelli di lui. Non ci aveva visto. La coppia non si accorse di noi e noi passammo oltre.Continuammo a camminare in silenzio, con le mani affondate nelle tasche. Su un’altra panchina scorgemmo una figura distesa, addormentata in un sacco di stracci eri parata alla meglio da cartoniappiattiti. Al suo fianco un carrello di supermercato stracolmo di buste e scatoloni che contenevano chissà cosa, forse il nulla, forse tutta la sua vita, ma da come se lo era legato stretto a un braccio, si poteva capire quanto ci tenesse.Forse era tutto ciò che possedeva.
Marcello rallentò, per un attimo abbassò lo sguardo su quell’ammasso di coperte e cartoni, ed io feci altrettanto. Poi, forse per rompere il silenzio che persisteva tra noi, esordì:
«Povera gente. Mi fanno pena. Ma forse loro preferiscono vivere in quel modo, e soffrono meno di noi. Sono così abituati a convivere con la loro condizione sociale che ormai non ci fanno più caso. Non ci pensano più».
Poi, come riprendendo un suo intimo e persistente pensiero, proseguì:
«Non so perché, ma di notte tutto mi sembra diverso, mi sento meglio,e camminare mi fa sentirebene. Sento la mente aprirsi, anche se i pensieri si accavallano, s’ingolfano, s’incuneano alla velocità della luce. Per un momento mi sembra di poter arrivare a scoprire perfino il mistero della vita: chi sono, perché sono qui. Poi basta un niente, un rumore, un fruscio, una distrazione e tutto ridiventa buio. Tutto finisce e ripiombo prepotentemente nella mia misera esistenza».
Io lo guardai perplesso e rimasi in silenzio, non sapevo cosa rispondere. Ci conoscevamo da sempre e lo stimavo. Da ragazzi giocavamo assieme, le nostre famiglie si conoscevano e spesso Marcello si fermava a mangiare e a studiare con me, a casa mia. Dopo il liceo, per un certo periodo lo persi di vista. Si era laureato e trasferito per insegnare lettere in una scuola del nord. Poi aveva ottenuto una cattedra nella nostra città ed era tornato. Era un professore che viveva con i genitori e una sorella. Quando rimase solo, si rese conto che quella casa era diventata troppo grande e troppo silenziosa, per una persona sola. Non si era mai voluto sposare e anche le poche relazioni che aveva avuto erano durate poco, sfiorite dopo un battito di ciglia. Gli era rimasta la sorella, due anni più piccola di lui, ma erano due entità diverse, distinte, lontane.
Frequentavo da sempre casa sua, anche da grande e anche dopo la morte dei suoi genitori.
Un pomeriggio, pur sapendo che non lo avrei trovato in casa ci andai lo stesso. Mi aprì la porta la sorella. Era appena uscita dalla doccia, gocciolava, e indossava un accappatoio bianco e in testa aveva un turbante di spugna.
«Ciao Giuliano. Marcello non c’è».
Lo sapevo, ma feci finta di stupirmi e chiesi dove fosse.
«A scuola. Riunione dei docenti, colloqui con i genitori, credo. Non so».
«Allora lo aspetto. Devochiedergli una cosa».
Ero di casa e Marta non sembrò sorpresa. Mi disse che doveva vestirsi, che dovevauscire. Io mi andai a sedere in salotto, di fronte a quella porta che Marta aveva lasciato socchiusa. Mi alzai e farfugliando qualche banalità le andai dietro. Entrai nella stanza e vidi l’accappatoio bianco abbandonato sul letto e lei in piedi,nuda, con l’asciugamano ancora avvolto in testa e della biancheria tra le mani. Mi avvicinai. La presi per un braccio e cercai di trarla a me, ma lei con un gesto leggero ma fermo, si svincolò.
«Giuliano, tra due mesi mi sposo. Non mi sembra il caso di iniziare ora. Ne hai avuto di tempo, quanto ne volevi,per accorgerti di me, se veramente ti interessavo».
Non sembrava imbarazzata dalla sua nudità. Riprese a vestirsi con calma, lasciando che io restassi lì, seduto sul letto a guardarla. Poi andò in bagno e sentii il rumore del phon. Si stava asciugando i capelli. Tornò nella stanza, dopo una ventina di minuti, con i capelli asciutti, vaporosi e già truccata, e finì di vestirsi. Prese le sue cose, il suo orologio, la sua borsetta e si avvicinò. Mi prese il mento tra le mani, mi alzò la testa e mi dette un bacio sulle labbra.
«Mi sei sempre piaciuto Giuliano. Ma hai lasciato scorrere troppa acqua sotto i ponti, e ora il tempo è scaduto».
Non disse più niente. Sorrise e con calma, statica come una statua di cera, si tirò su, mi voltò le spalle e poco dopo sentii la porta d’ingresso chiudersi alle sue spalle.
Da quando Marta si era sposata, Marcello continuò a vivere in quella casa da solo. Faceva salire solo gli amici più intimi, qualche studente cui dava lezioni private e la donna che periodicamente andava a riordinargli l’appartamento.
Diceva che amava la solitudine, i suoi libri, i suoi studenti e quello gli bastava. Frequentava poco e solo le vecchie amicizie, quelle che si portava dietro dall’infanzia. Quelle nate trai ragazzi della porta accanto, ma intimamente sentiva che tutto ciò non gli bastava.
In compagnia si trasformava, riusciva a sorridere, a volte rideva di gusto alle battute degli altri. A tavola sedeva sempre accanto a me, alla mia destra, e se qualcuno si sedeva prima di lui lo pregava di cambiare posto: “Devo starci io a fianco a Giuliano. Gli devo parlare”. Ma non aveva niente da dirmi.
Era fatto così, voleva solo sedersi accanto a me, come a scuola, alle elementari, alle medie.Eravamo molto legati. Una volta, da ragazzi, ci incontrammo per strada, io ero in compagnia di una ragazzina e lui sembrò rimanerci male. La sera glielo chiesi, ma lui disse di no. Si era solo stupito di avermi visto con una ragazza. Gli anni si accavallavano e noi crescevamo carichi di sogni e pieni delle nostre aspettative: ragazze, viaggi, moto e macchine di grossa cilindrata epotenti. Lui, se glielo chiedevano, si limitava a dire che per stare bene gli bastava un buon libro da leggere prima di addormentarsi. “E alle ragazze non ci pensi”, chiedevamo. “A volte”, rispondeva, ma aggiungeva che non la riteneva una cosa importante.
Continuammo a camminare in silenzio, e lui sembrava sempre più assorto e gli chiesi a cosa stesse pensando.
«Tra tutti i misteri della vita, ce n’è uno che mi tormenta da sempre e non so spiegarmelo. Io sto bene da solo, ho imparato a farmi anche compagnia da solo. Sto bene anche con gli amici, con te in particolare. Con temi piace parlare e passeggiare, perché sei diverso da tutti gli altri. Tu sai ascoltare. Ma vedi, a volte, come questa sera, questa notte, mi capita di sentirmi particolarmente solo e non so spiegarmelo, e tutti gli sforzi che faccio per arginare questo malessere,mi risultano vani. Vedi… vedi quelli là, gli innamorati sulla panchina? Anche loro stanno così, come me, e per non sentirsi soli, hai visto,si stringono si abbraccio, si parlano, si dicono delle cose che forse non servono, ma intanto, intimamente sanno che quando si divideranno, quando si alzeranno da quella panchina, saranno di nuovo soli. E quel barbone che abbiamo visto su quell’altra panchina, anche lui è solo, più solo di noi, di me e di te. Ma forse è l’unico a non accorgersene, cui non pesiquesta situazione, questa solitudine. Ormai è abituato e tutto quello che gli serve, è in quel carrello e della solitudine ne ha fatto il suo mondo, il suo modo di vivere. Sono sicuro chenon ci pensi,ma intimamente è solo, e lo stesso vale per me. Prima avevo i genitori, vivevo con loro e non ci pensavo. Poi andai a insegnare fuori, conobbi delle ragazze, una collega, le feci la corte, ci frequentammo e avrei potuto anche sposarla, ma intanto mia madre era rimasta sola con mia sorella e stava invecchiando, e allora preferii ritornare a vivere con loro. Poi anche mia madre e mia sorella se ne andarono, una al cimitero e l’altra a casa sua, con suo marito e i figli, e da quel giorno ho scoperto con orrore il supplizio dellavera solitudine, di questa solitudine, fatta di notti insonni e di giornate vuote. Io vivo così, in questa condizione e so che niente potrà porvi rimedio. Niente, capisci? I giorni trascorrono uno in fila all’altro con il loro fastello di cose sempre simili, appena impercettibilmente diverse, come la mia esistenza».
Io lo guardai, gli misi una mano sulla spalla, volevo dirgli che non era solo, che c’ero io al suo fianco, che poteva sempre contare su di me, ma lui, ormai immerso nei suoi pensieri, riprese:
«Ti ho trascinato in questa passeggiata perché non volevo tornare a casa, in quella casa troppo grande, troppo silenziosa e troppo vuota. Da solo sto male. Nella solitudine soffro terribilmente. Tu mi ascolti, mi sopporti, e chissà cosa pensi in questo momento, maintanto siamo soli, fianco a fianco, ma soli entrambi. Mi capisci? Devo sembrarti un po’ pazzo, non è vero?Mapensaci, tu ora, quando ci lasceremo, tornerai a casa e troverai il letto caldo, riscaldato da tua moglie, passerai davanti alla stanza delle tue bambine e darai un’occhiata dentro, ti avvicinerai, sentirai il loro respiro calmo e regolare. Troverai tua moglie che ti aspetta, o magari dormirà e allora tu farai piano per non svegliarla. Tutto questo a me non può succedere e mi pesa, Giuliano. Non puoi immaginare quanto mi pesi».
Avevamo risalito il viale ed eravamo arrivati nella piazza con la grande fontana che anche a quell’ora continuava a zampillare alti getti d’acqua colorata.Ci fermammo, girammo intorno alla fontana e tornammo indietro, camminando piano, stancamente. La coppia non c’era più, il vagabondo russava, e noi proseguimmo sino alle nostre macchine.
Marcello aveva continuato a parlare molto, aggiungendo cose che non ricordo più. Si fermò, poi di colpo tese il braccio verso l’imponente monumento che delimitava i giardini pubblici ed esclamò:
«Ecco, vedi, siamo tutti come quella statua lì, di quel monumento, soli e pensierosi come il personaggio che rappresenta».
Dopodiché mi prese sotto braccio, accennò altri due passi,si fermò, e mi chiese scusa.
«Non era mia intenzione trascinarti in questa passeggiata e poi tediarti. Ma l’argomento è nato così, scaturito spontaneo quando ho visto quel barbone, perchésono solo, solo come lui. Solo e vuoto dentro come quella statua. No. Non dirmi niente, so quello che vorresti dirmi: donne ce ne sono tante, ci sono gli amici, c’è la scuola, eccetera. Ma non è questo, quello che mi manca. Non mi manca una donna Giuliano, mi manca una donna da amare, la donna a cui dire buona notte prima di addormentarmi e buon giorno amore al risveglio».
Finitala frase,tornò a guardarsi la punta delle scarpe, poi trasse di tasca le chiavi della sua macchina e si avviò.
«Ciao Giuliano. Lo so, ho sbagliato, ho esagerato. Ma con te ero sicuro di potermi lasciare andare, sei un amico, il mio più caro amico. Scusami comunque. Buona notte».
Lo vidi andare via, seguii con lo sguardo la sua macchina che risaliva lo stesso viale che avevamo percorso a piedi,e poi tornai a casa anch’io.
Era ubriaco? Era impazzito? Era sobrio? Non lo so. O forse non lo avevo capito.
Pensandoci mi sembrava che avesse ragione; altre volte mi sembrava che stesse esagerando, che avesse perso la testa.

Tornato a casa, trovai mia moglie in salotto che mi stava aspettando alzata.
«Dove sei stato sino a quest’ora. Perché hai tardato tanto? Perché hai il cellulare spento. Lo sai che non riesco a prendere sonno se non siamo tutti a casa. Ho chiamato Paolo e Andrea, e mi hanno detto che la cena è finita da un pezzo e che loro erano già tornatia casa. Che hai fatto tutto questo tempo, dove sei stato fino adesso? Con chi sei stato? E io stupida, qui sola ad aspettarti…»
Non risposi. Alzai le braccia, aprii le mani e mi nascosi il volto lì dentro e pensai a Marcello, in quel momento solo nella quiete della sua casa vuota, e lo invidiai.
 



Lascia un commento

Nome: (obbligatorio)


Email: (obbligatoria - non sarà pubblica)


Sito:
Commento: (obbligatorio)

Invia commento


ATTENZIONE: il tuo commento verrà prima moderato e se ritenuto idoneo sarà pubblicato

Sponsor