C’era agitazione quella mattina in ufficio e i colleghi stavano continuamente al telefono o facevano la spola tra le loro stanze e quella del titolare dello studio e tutto quell’andirivieni a me dava un senso di tranquillità. Segno di sicuro lavoro.
Eravamo sette avvocati, più il grande capo che si occupava di tutto. Dopo il praticantato avevo scelto di occuparmi di diritto civile e così mi furono assegnate le cause riguardanti il contenzioso amministrativo e quelle sul lavoro, e siccome lo studio aveva stipulato delle convenzioni con diversi enti territoriali e le beghe giudiziarie erano all’ordine del giorno, Giudice del lavoro, TAR e Consiglio di Stato, erano il nostro pane quotidiano.
Quella mattina, dunque, era tutto un fermento nello studio e non mi sarei mai aspettata di dovermi occupare, ancora una volta, delle controversie legali di un comune della provincia. Mi ero già occupata di quell’ente, ci avevo perso le giornate e anche qualche nottata per cercare di sbrogliare una matassa che negli anni precedenti si era andata ingarbugliando a tal punto che aveva finito per attrarre l’attenzione della magistratura e, allora, quando un collega venne a dirmelo con un sorriso da profonda Quaresima, lo fissai perplessa e chiesi:
«Perché io? Non può occuparsene qualcun altro?» Risposi, conoscendo comunque già la risposta, e per questo ancora più irritata.
«Valeria, perché mi costringi a dover andare dal grande capo e poi fartelo dire da lui? Sono situazioni di cui tu ti sei già occupata. Chi meglio di te potrebbe portarle avanti?»
Troppi ricordi mi riportavano su quel litorale e per questo non volevo più tornarci. Il mare, io e lui mano nella mano mentre passeggiavamo a piedi nudi sulla sabbia.
Era stata un’infatuazione iniziata in sordina, piano piano, coltivata con piccoli gesti, tante attenzioni e altrettante gentilezze da parte sua. Quando poi si rivelò qualcosa di più importante, per colpa mia, tutto stava per svanire.
Si chiamava Ottavio ed era uno dei pochi funzionari a non essere stato travolto dalla bufera giudiziaria che si era abbattuta su quell’ente, ed era stato distaccato al dipartimento risorse umane proprio per sostituire quei colleghi che erano stati trasferiti o sospesi dal servizio.
Collaborava con il nostro studio, con me in particolare. Mi aiutava a districarmi in quel groviglio di faldoni, a cercare le pratiche che servivano alla formulazione degli atti.
Quando la mattina arrivavo, lui era già dietro la sua scrivania e, dopo un rapido saluto, mi porgeva i fascicoli che avevo chiesto la sera prima. A volte mi capitava di entrare nella sua stanza per chiedergli qualche delucidazione, un documento e mi avrebbe fatto piacere soffermarmi a parlare con lui, ma era così taciturno che parlava solo se incoraggiato e allora lo lasciavo stare e tornavo a rinchiudermi nella stanza che mi era stata assegnata. Spesso, all’ora della pausa, bussava alla mia porta e mi chiedeva se volevo scendere con lui a mangiare qualcosa, ma era di così poche parole che quando provavo a dirgli qualcosa il nostro dialogo diventava simile a un interrogatorio: io chiedevo e lui si limitava a rispondere, con un sì o con un no. Raramente aggiungeva qualche sillaba, men che meno una frase. Ma lo percepivo, trapelava dal suo modo di fare che gli faceva piacere avermi vicino, trascorrere quei minuti in mia compagnia.
Quando si lasciava andare, perlopiù parlava di libri e della sua passione di scrivere racconti. Di hobby io non ne avevo e quindi non ne parlavo, e delle mie disavventure sentimentali preferivo soprassedere.
Aveva due d’anni più di me e subito dopo il conseguimento della laurea aveva partecipato al concorso pubblico per funzionario amministrativo indetto dall’ente e lo aveva vinto. Mi disse che a lui interessava solo la quiete e la tranquillità economica e all’ufficio toponomastica, dove era stato assegnato appena assunto, le aveva trovate perché si occupava solo dell’aggiornamento anagrafico delle strade e la numerazione civica. Non riceveva il pubblico, ma se proprio doveva farlo, aggiunse, cercava di sbrigarsi in quattro e quattr’otto, per poi tornare a immergersi nel silenzio delle sue planimetrie.
Una sera, a causa di una riunione imprevista, tenutasi con alti funzionari dell’ente per fare il punto della situazione, ci attardammo e, a causa anche di un violento acquazzone, rimanemmo bloccati in ufficio. Le stanze erano ormai tutte deserte e al buio, intorno a noi solo silenzio e in quel momento provai una inaspettata sensazione di piacere nel trovarmi lì, sola con lui.
«Speriamo che smetta presto. Questa sera avevo promesso a mia madre che sarei andata a trovarla. Non sta bene, ha dei problemi di salute che si sono acuiti dopo la morte di mio padre, ma intanto insiste a voler restare nella sua casa e continuare a vivere da sola».
Gli dissi, mentre appoggiata alla finestra, stavo guardando fuori, verso l’orizzonte per cercare di scorgere, in quel compatto ammasso di nuvole nere, uno spiraglio di sereno. Ma forse glielo dissi solo per interrompere quell’assordante silenzio che si era venuto a creare tra noi.
«Prima o poi smetterà di piovere». Rispose lui, alzandosi e venendomi vicino.
«Ma mia madre non abita in città, sta in un paese qui vicino, non ho con me la macchina e sto pensando di chiamarla per dirle che ci andrò un’altra volta, magari in settimana o domenica prossima».
«Perché vuoi darle questa delusione, se sai che ti sta aspettando?»
Stavo per rispondergli quasi a tono, come a dirgli: come diavolo ci vado, se ti ho detto che non ho la macchina e sta diluviando. Ma mi trattenni e gli risposi semplicemente che non avevo scelta.
« Non ho nulla da fare, se vuoi ti posso accompagnare io. Mi farebbe piacere».
«E i tuoi racconti? Questa sera lasci che subiscano una battuta d’arresto?»
Gli chiesi, girandomi verso di lui.
«I miei personaggi sono per lo più ubbidienti e silenziosi e poi dicono solo quello che voglio fargli dire io. Perciò, non ne avranno a male».
Lo ringraziai, e gli risposi che forse era meglio rinviare. Era già tardi e magari si sarebbe anche annoiato ad ascoltare mia madre che non avrebbe fatto altro che ripetere le stesse cose di sempre, ma lui, scuotendo la testa, rispose:
«Non importa, per me non è un problema».
Alla fine cedetti e, sotto un diluvio che non voleva saperne di smettere, ci mettemmo in macchina e ci avviammo.
«Allora d’accordo, visto che continua a piovere e tu non vuoi entrare, la saluto, le dico che sono in ritardo e così tra un po’ ritorno».
Risalita in macchina, gli riferii che mia madre avrebbe voluto farmi restare a cena e che, con la fame che mi ritrovavo, quasi quasi stavo per accettare. Lui mi accolse con un sorriso e rispose:
«Se vuoi, possiamo andare a farci una pizza?», ed io dissi subito di sì, anche se in fondo non avevo poi tutta quella fame.
«Allora ti porto in un posto tranquillo, perché se incontriamo qualcuno dell’ufficio o che ci conosce, domani potremmo trovare affissi dei manifesti che ci riguardano».
Sorrisi e gli feci un cenno d’assenso, ma risposi che per me non sarebbe stato un problema, se non lo fosse stato anche per lui.
In effetti, disse, non sarebbe stato un problema per nessuno, ma aggiunse:
«Poiché la mamma dei cretini è sempre incinta e le malelingue non si fanno mai i fatti loro, sarebbe più prudente fermarci in un posto tranquillo, in un localino fuori mano che conosco».
Ero stata bene con lui quella sera, trascorremmo delle ore piacevoli, in cui ci lasciammo andare a parlare di noi, dei nostri trascorsi e anche delle nostre disavventure sentimentali.
Mi disse che gli piaceva leggere romanzi di autori stranieri e che la sera, non amando guardare la televisione, spesso accendeva il pc e incominciava a scrivere racconti. Storie inventate, di fantasia, ma che dovevano seguire un filo logico, riflettere la realtà e magari far anche immedesimare e riflettere il lettore. Poi le storie potevano finire in qualsiasi modo. Bene o male, non aveva importanza.
«Una pagina bianca, a differenza di molti che la temono, a me ha sempre dato una specie di benefica euforia. Quando scrivo, può succedere solo quello che decido io. Metto io le regole e tutto deve seguire il ragionamento che ho scelto. Io scrivo quello che sento, quello che provo. Gli amici saranno sempre veri e sinceri. I genitori ci vorranno sempre bene e i delinquenti saranno castigati. Certo, a volte diventa difficile coniugare tutto questo in un semplice racconto».
Non disse molto di più di se ed io, in definitiva, cosa avrei potuto dirgli di me? Solo che vivevo da sola in città perché mia madre aveva preferito continuare a restare in paese; che lavoravo in quello studio legale e, dulcis in fundo, che dopo una convivenza durata tre anni, tutto era crollato e finito.
«Un malinteso, aveva sostenuto lui. Un tradimento insistetti io e così, dopo un furibondo litigio, sono tornata single. Delusione, orgoglio, rabbia, rancore, e non sono riuscita a fare quel passo indietro che lui mi chiedeva. E ora eccomi qui, con le pive nel sacco». Conclusi.
Anche Ottavio era single. Il perché, disse, non se lo sapeva spiegare nemmeno lui. Aveva avuto sì delle storie, ma tutte di poca durata e di poca importanza.
«Forse è colpa del mio carattere chiuso e poco socievole. O molto più semplicemente non vado bene alle ragazze».
«Forse non hai ancora trovato la persona giusta, quella che ti capisce, quella che ti faccia battere il cuore e pensare a lei prima di addormentarti e appena sveglio».
Gli dissi, sebbene sapessi benissimo che non era quello il suo problema.
Lui fece trascorrere qualche secondo di silenzio poi, con la testa abbassata e senza guardarmi, sussurrò:
«Grazie, sei molto cara a dirmi queste cose. Ma penso che la colpa sia solo mia, come ti ho detto, ho un carattere chiuso e la timidezza ha la sua parte di responsabilità nel mio modo di essere, ma non riesco ad adattarmi a certi ritmi. Io amo la calma, la tranquillità, la musica classica e anche il silenzio, e mi è stato sempre difficile trovare una persona che voglia condividere queste cose con me».
Finita la pizza, sotto la luce smorta dei neon, con il televisore che inviava immagini che nessuno guardava e un solitario avventore che stava affogando i suoi mesti pensieri in un bicchiere di brandy, noi continuammo a parlare dei nostri problemi, delle nostre aspettative, sino a tardi, poi mi riaccompagnò a casa.
Sul divano, nel mio pigiamone, con i calzettoni di lana e la gatta sulle ginocchia, cominciai a pensare seriamente a lui e a come sarebbe andata a finire se ci fossimo lasciati andare di più.
Un venerdì, mentre in ufficio gli impiegati non aspettavano altro che l’ora per potersene tornare a casa, Ottavio entrò nella mia stanza con dei fogli in mano e disse che erano dei suoi racconti e che gli avrebbe fatto piacere se li avessi letti. Gli risposi di sì che li avrei letti volentieri e infilai il tutto nella borsa. Una volta a casa, in quel pomeriggio uggioso, presi quei fogli e cominciai a leggere. Erano tre racconti che parlavano di abbandoni, storie finite, problemi familiari e pertanto, sapendone già abbastanza sull’argomento, smisi di leggere. Ma, avendogli promesso che gli avrei fatto sapere cosa ne pensavo, lo chiamai e gli dissi che avevo letto i suoi racconti e che mi erano piaciuti. Li avevo trovati solo un po’… un po’ tristi, ecco. Lui non sembrò sorpreso e così passammo a parlare d’altro.
«Che cosa stai facendo, devi uscire questa sera?» Chiese.
«No. Resto a casa, pur sapendo che mi annoierò». Risposi.
«Se passo a prenderti, ti andrebbe di uscire con me?»
«Dove vorresti portarmi?» Chiesi, sapendo che non era il luogo che m’interessava.
«Non so? Potremmo fare una passeggiata, magari sul litorale. Sono solo a casa anch’io e, a differenza tua, mi sto già annoiando».
Mi venne a prendere e facemmo un giro in macchina. Poi, in un pallido sole crepuscolare, andammo a passeggiare su una spiaggia lambita da ripetitive e stanche onde che si venivano a spegnere ai nostri piedi. Camminando mi prese la mano e disse che ormai non faceva che pensare a me, a noi, e che forse sarebbe stato bello provare a condividere assieme il sentimento che provava.
«Proviamo a volerci bene». Disse serio, fermandosi ai piedi di uno scoglio che aveva la forma di un grosso elefante addormentato.
La fine della mia storia precedente, la rabbia che non riuscivo a placare e che non mi permetteva di rasserenarmi, di lasciarmi andare, mi fece tentennare e glielo dissi. Lui non sembrò sorpreso, rispose di comprendermi e da quel giorno non tornò più sull’argomento.
Nelle settimane e nei mesi che successivi, continuammo a collaborare assieme. Era sempre gentile e premuroso, ma si comportava come un cane bastonato, tanto che mi faceva sentire in colpa e allora cercai di parlargli. Dirgli che se lui era ancora di quel parere, magari, avremmo potuto provare a conoscerci meglio.
Lui mi fissò in silenzio, come a cercare di comprendere quello che gli stavo dicendo, ma poi scosse la testa e rispose:
«Non tormentarti, non insistere a voler cercare in te un sentimento che non provi. Questo è un problema mio, solo mio. Passerà».
Ultimato il lavoro in quel comune, me ne andai e tornai a occuparmi d’altro. Ma intanto il pensiero tornava sempre a Ottavio e dovetti ammettere che ora il problema non era solo il suo, ma stava coinvolgendo anche me. Aveva il mio numero, perché non mi chiamava.
Poi era venuto nella mia stanza quel collega: “Valeria, perché mi costringi a dover andare dal grande capo e poi fartelo dire da lui? Sono situazioni di cui ti sei già occupata…”
Così ora mi trovo di nuovo qui, in municipio, nella solita stanza, ma da sola, perché Ottavio ha chiesto e ottenuto di poter tornare a occuparsi delle sue planimetrie, all’ufficio Toponomastica.
Dal giorno che sono tornata, è trascorso più di un mese e un’altra settimana sta per finire. È venerdì pomeriggio, richiudo dietro di me la porta dell’ufficio, ma non ho voglia di tornare a casa, prendo la macchina e mi dirigo verso la litoranea.
Fa freddo, ma sento il bisogno di scendere e passeggiare su quella sabbia che un giorno ho calpestato assieme a lui e dove ho trascorso, senza rendermene conto, dei momenti se non felici, sicuramente sereni.
Cammino scalza sulla spiaggia umida e mi allungo sino a quello scoglio laggiù, quello che ha la forma di un elefante addormentato e dove Ottavio mi aveva detto quelle parole. Mentre mi avvicino scorgo una figura, ma non avendo voglia di incontrare nessuno sto per andarmene, ma ecco, subito torno indietro perché vengo attratta da quella persona e mi avvicino.
«Ciao Ottavio. Cosa ci fai qui?»
«Ciao Valeria». Rispose, e non mi sembrò sorpreso di vedermi.
«Come mai sei qui?» Tornai a chiedere.
«Ti aspettavo. E’ più di un mese che ogni venerdì pomeriggio vengo qui con la speranza di vederti arrivare».