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UNA LETTERA DA CESTINARE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

18
GEN
2018

Anche questa sera mi sono dovuta trattenere sino a tardi in ufficio. Sono stanca, è tardi ma torno finalmente a casa.
Cercando di non far cadere la tracolla del computer e il cellulare dalle mani, apro la cassetta della posta e tiro fuori il contenuto. Due sono bollette, e va bene. L’altra invece è una lettera. Non appena la rigiro tra le mani, riconosco la calligrafia e il cuore comincia a battere forte.
Stavo così bene, e credevo di averlo superato quel trauma. Non voglio leggerla. Anzi, non avrei proprio voluto riceverla, e la cosa migliore sarebbe strapparla in mille pezzi e buttarla via. Ma non ci riesco. Mi fermo nell’atrio e tremando apro la busta.
Con Gianluca stavo bene, ed ero proprio convinta che sarebbe stato l’uomo della mia vita. Ci conoscevamo da quando eravamo ragazzi, frequentavamo lo stesso liceo, anche se in classi diverse perché lui ha due anni di più. Poi io cominciai a frequentare l’università, mentre Gianluca aveva già iniziato a lavorare nell’azienda di suo padre. Ci innamorammo e ci mettemmo insieme.
«Siete proprio una bella coppia! Gianluca ha il suo fascino, una buona posizione e presto vi sposerete». Sentenziava Matilde, la mia migliore amica.
Con lei eravamo come sorelle. La mia casa era la sua e viceversa. Io dormivo da lei, lei da me. Ci confidavamo tutto e la gente si stupiva che andassimo così d’accordo, pur essendo così diverse. Parlavamo di tutto, dei ragazzi, dei nostri interessi, del lavoro che avremmo voluto intraprendere, anche se lei non aveva grandi idee in proposito e non nutriva particolari ambizioni.
«Tutto quello che io voglio, è finire gli studi e trovare un marito, avere una famiglia e dei figli». Mi diceva Matilde, quasi infastidita da quei discorsi.
La storia con Gianluca intanto andava avanti e diventava sempre più importante. Spesso i fine settimana li trascorrevamo dai suoi, nella villa in collina o andavamo fuori. L’estate, invece, cercavamo di far coincidere i nostri periodi di ferie e trascorrevamo quindici giorni al mare, da soli.
Matilde era sempre la mia migliore amica e ci vedevamo spesso. Aveva avuto un ragazzo, conosciuto in vacanza, ma poi lui se n’era tornato a Milano e non si era fatto più sentire, e lei c’era rimasta molto male. Quello era un periodo travagliato per lei, e la sua condizione di single le pesava. Gianluca ed io cercavamo di starle vicino, di non farle pesare la situazione, a volte usciva con noi, andavamo al cinema, a farci una pizza tutti assieme.
Una sera, Gianluca mi chiese se me la sentissi di andare a vivere con lui. La sua famiglia abitava in una grande casa e uno dei piani della villa sarebbe stato a nostra disposizione.
Io sorrisi, e gli dissi che avremmo potuto provare, ma di trovare un’altra sistemazione, lontana dalla casa dei suoi, magari un appartamentino in affitto, perché non mi andava di dover condividere lo stesso spazio con i suoi genitori e le sue sorelle.
Quando lo dissi a mia madre, lei non ne fu felicissima. Era vedova e aveva solo me, ma mi voleva bene e non cercò di trattenermi.
«Se pensi che sia la cosa giusta da fare, e avete già deciso, sia fatta la vostra volontà, anche se io penso che si dovrebbe andare a vivere insieme solo dopo essersi sposati». Rispose, sforzandosi di sorridere.
Io le promisi che ci saremmo viste comunque spesso, che l’avrei chiamata ogni giorno, ma lei scosse la testa e rispose che non ci credeva, ma che comunque avrebbe accettato di buon grado la mia decisione.
Così mettemmo su casa e andammo a vivere per conto nostro. Lui era molto impegnato con il suo lavoro, anche perché il padre non stava molto bene e progressivamente stava passando la mano al figlio. Io, da parte mia, stavo per molto tempo fuori di casa. Ero una responsabile di un call center, con decine e decine di dipendenti. Quando potevo, andavo a pranzo da mia madre, continuavo a frequentare Matilde e con Gianluca facevamo progetti e pensavamo di sposarci entro due anni, e intanto la nostra relazione proseguiva a gonfie vele. Almeno fino a quella fatidica sera.
Quel pomeriggio chiamai Gianluca e gli dissi che sarei stata impegnata sino a tardi. Avevo una riunione del gruppo, dove avrebbero partecipato anche i titolari, che venivano apposta da fuori.
«Mi spiace, questa sera farò tardissimo per forza, e non so a che ora potrò tornare a casa». Conclusi.
Lo sentii sospirare, e dopo un attimo di silenzio mi disse che allora avrebbe approfittato per continuare a lavorare anche lui. Aveva degli arretrati da portare a termine e doveva controllare i registri e i rendiconto che il suo commercialista gli aveva lasciato sulla scrivania.
Annuii contenta, perché mi sembrò una buona idea e mi sentii meno a disagio. Tutto andò come previsto sino alla fine del turno, ma verso le otto, quando m’informarono che la riunione era saltata a causa del ritardo del volo, il quale non aveva permesso ai nostri capi di presenziare, presi il cellulare e stavo per chiamare Gianluca. Ma poi pensai di fargli una sorpresa.
Lo avrei raggiunto in ufficio e visto che era venerdì sera e non avevamo ancora cenato, volevo proporgli di andare a finire la serata in qualche ristorantino.
Chiamai mia madre per augurarle la buona notte, poi andai da Gianluca. La sua macchina era parcheggiata al solito posto e le luci dell’ufficio erano accese. Salivo le scale e intanto pregustavo la sua sorpresa. Aprii piano la porta, e subito sentii delle voci. Una era la voce di Gianluca e l’altra quella di una donna. Sulle prime pensai che avesse chiesto alla sua segretaria di fermarsi per farsi dare una mano, ma quella non era la voce della signora Iole. Voce che conoscevo bene, per averle parlato più volte, sia di persona sia al telefono.
Mi fermai dubbiosa sulla porta, e restai a sentire.
«Quando hai intenzione di dirglielo?» La voce era di Matilde, la mia migliore amica.
«Devi avere un po’ di pazienza, dammi tempo, cercherò di farlo al più presto». Sentii rispondere da Gianluca.
«Guarda che di tempo, non ne rimane poi molto. Otto mesi passano in fretta e noi dobbiamo organizzarci. Pensare al nostro futuro».
Otto mesi… Le chiavi mi scivolarono dalle mani e finirono per terra. Smisero di parlare di colpo e Gianluca, a petto nudo, si affacciò nel corridoio. Non restai ad aspettare le loro spiegazioni, non mi servivano. Era tutto fin troppo chiaro e stavo per vomitare. Raccolsi le chiavi, girai le spalle e ridiscesi di corsa le scale. Mi sembrava di essere ubriaca, mi girava la testa. Presi la macchina ma dopo due incroci andai a impattare contro una vettura ferma al semaforo. Sentii un gran rumore di ferraglia, un dolore atroce all’anca sinistra e poi più nulla.
Quando aprii gli occhi, un mendico parlava con mia madre e le diceva:
«È andato tutto bene. Un intervento quasi di routine. Un mese immobile, a seguire la fisioterapia e tutto ritornerà come prima. È così giovane…»
Mi guardai intorno. Cercavo mia madre e Gianluca era lì, accanto al mio letto e mi stava sorridendo.
«Monica, tranquilla. Andrà tutto bene. Hai avuto un incidente, ma il peggio è ormai passato e tra un po’ ti riprenderai». Mi disse. Ma niente sarebbe stato più come prima, perché mi ricordavo benissimo quello che si stavano dicendo, lui e Matilde, prima che scappassi via dal suo ufficio.
«Mi senti, Monica? Hai capito quello che ti ho detto? Andrà tutto bene, hai una frattura al femore e qualche contusione, ma ti riprenderai presto». Insistette, chinandosi per prendere la mia mano e stringerla tra le sue.
«Vai via». Sussurrai, e girai la testa.
«Monica, ora riposati, poi ne parliamo».
«Vai via». E questa volta non era un sussurro, ma un grido disperato, tanto che un medico e un’infermiera si precipitarono nella stanza e il medico gli disse:
«Non agiti la paziente, per favore. È meglio che se ne vada. Bisogna lasciarla tranquilla, deve riposare, è ancora debole e sotto l’effetto dell’anestesia».
Certo che mi stavo agitando. Mentre stavamo insieme e mi assicurava eterno amore, Gianluca faceva l’amore con Matilde, la mia migliore amica. Ed era riuscito anche a metterla incinta! Ma che ipocrita. Che bastardo.
E venne a trovarmi anche sua madre, e mi disse anche lei di stare tranquilla, ma mentre mi guardava si rodeva. Mi ha sempre ritenuto troppo lontana dal suo stato sociale, e non all’altezza di suo figlio. Poi venne anche quella santarellina tutta casa e chiesa di Matilde a trovarmi, a chiedere come stessi. Che coraggio. Era andata a letto con Gianluca e lo aveva incastrato. Davvero una mossa geniale la sua.
L’infermiera era sempre più allarmata. La mia pressione saliva e scendeva, il battito cardiaco sembrava impazzito e chiamava i medici che si affaccendavano intorno a me. Ma non era per colpa della frattura e delle contusioni che stavo male. Il mondo mi stava crollando addosso, e la rabbia e la delusione mi facevano stare male. Chiamai la mamma. Volevo solo lei vicino. Solo lei.
Nei giorni seguenti Gianluca continuò, attraverso i medici, a chiedere di me, e mi mandava anche dei fiori che io facevo gettare subito nella spazzatura. Matilde, ebbe invece il buon gusto di non farsi più vedere, né di chiedere notizie a mia madre.
Dopo l’ospedale mi portarono in una clinica per la riabilitazione. La gamba sinistra era ridotta male ma mi misi d’impegno. Non vedevo l’ora di lasciare qual posto e di tornare al mio lavoro, tanto che la fisioterapista, poco più grande di me, si stupì.
«Se tutte le pazienti fossero come te, il mio lavoro sarebbe molto più facile». Mi disse.
Una seduta al giorno, per sei settimane, e diventammo quasi amiche. Un giorno, mentre mi massaggiava la gamba, dopo una seduta d’estenuanti esercizi, si chinò su di me e disse:
«Senti, io l’ho capito che ti è successo qualcosa. E non penso sia solo lo choc dell’incidente a farti stare male. Se ti va, se hai voglia di parlarne, io sono qui».
Con mia madre, che veniva a trovarmi tutti i giorni, non ero riuscita ad affrontare sino in fondo l’argomento. Con la fisioterapista invece era diverso. Aveva quasi la mia età, e a volte è più facile confidarsi con una persona estranea, con la quale si ha meno soggezione.
«Hai ragione. Non è l’incidente, sì anche quello ha contribuito, ma è quello che è successo prima che mi fa stare così male…» In somma, le raccontai tutto. Lei mi lasciò parlare e alla fine annuì, senza però dare l’impressione di essersi stupita.
«Adesso capisco. Deve essere quel ragazzo che è venuto più volte a chiedere di te. Non è male. Però non è mai voluto entrare nella tua stanza».
«Sì, è lui. È Gianluca». Le risposi.
Quando uscii dalla clinica, tornai a casa da mia madre e faticosamente cercai di abituarmi alla nuova condizione, a vivere senza Gianluca. Tornai anche a lavorare. Tempo dopo, appresi che Matilde e Gianluca si erano sposati. Lo lessi su un giornale che pubblicava la notizia e le loro foto. La sua famiglia era una di quelle importanti e il quotidiano riportava che tra gli invitati si erano viste persone di spicco, politici e autorità. Nelle fotografie lui, elegantissimo, era però serio e non sorrideva.
Quella notizia fece affrettare la mia decisione. Chiesi il trasferimento in altra sede, in altra città. Non potevo più rimandare. Dove mi trovavo, tutto contribuiva a rammentarmi di lui.
Tornare in quei posti dove eravamo stati felici insieme, mi faceva stare male. Incontrare facce conosciute, che sapevano tutto di noi, mi metteva a disagio.
Mia madre non era contenta, temeva, nel sapermi da sola in una grande e sconosciuta città, con ancora una gamba zoppicante e dolorante e cercava di farmi desistere dall’idea.
«Mamma, devo andare via. Devi lasciarmi partire. Io continuerò a fare il mio lavoro, l’agenzia mi ha già trovato un piccolo appartamento in periferia. Conoscerò gente nuova e, come puoi immaginare, ho assolutamente bisogno di cambiare ambiente».
E ancora una volta lei capì, ingoiò il boccone amaro e mi aiutò a fare le valige.
Il tempo è davvero un galantuomo e cura tante ferite. Nella nuova città mi sono inserita bene, e del lavoro non potevo lamentarmi, perché mi erano stati affidati nuovi incarichi e mansioni di responsabilità. Certo, non facevo una gran vita sociale, ma avevo qualche amica e qualche amico, colleghi di lavoro. Nel palazzo dove abitavo, erano tutti gentili, ma anche molto anziani. Solo nell’appartamento di fronte al mio, era venuto ad abitare un ragazzo che però vedevo raramente.
Sono ancora ferma nell’atrio con la lettera in mano. So che è di Gianluca. Ho riconosciuto la sua calligrafia. So che sto facendo un errore, ma la apro.
“Cara Monica, lo sai, non sono mai stato bravo a scrivere, però, devo dirti una cosa. Spero che tu non cestini questa lettera, prima di averla letta. Ho pensato che questo sia il modo migliore per fartelo sapere, anche se è un modo d’altri tempi. Non ho la tua e-mail, e avevo paura di telefonarti. Avresti sicuramente riattaccato e io non avrei potuto dirti quello che penso. Sono trascorsi tre anni da quella sera maledetta, e intanto sono successe molte cose. So che stai bene, che ti sei trasferita, che hai avuto un innalzamento di carriera. Io, invece, sono sempre qui, alla scrivania di mio padre. Con Matilde è finita male e non stiamo più insieme. Abbiamo cercato un punto d’incontro per il bene del bambino, ma non c’è stato niente da fare. Ora sono separato e in attesa di divorzio. E volevo anche dirti che la prossima settimana sarò nella tua città per lavoro, e che mi farebbe piacere incontrarti. Il mio numero è sempre lo stesso. Ti chiedo di darmi un’altra possibilità. Con Matilde è stato solo un momento di smarrimento, un errore che sto pagando amaramente. Mi manchi Monica. Per favore, chiamami, sentiamoci, dammi un’ultima possibilità. Tuo Gianluca”.
Lo sapevo, non avrei dovuto aprila. Sorrido amaramente, pensando a quello che mi sta proponendo.
Qualcuno sta aprendo il portone. Mi giro e lo vedo. È l’inquilino che abita di fronte al mio appartamento. È un giovane insegnante, e viene anche lui dal sud. È serio, ma i suoi modi sono estremamente garbati. Infilo in fretta la lettera nella borsetta, cerco di non far cadere le chiavi e il cellulare, prendo la busta della spesa e mi avvio, ma subito inciampo nella lunga tracolla del computer e sto per cadere. Sembra una scena comica e arrossisco. Lui si avvicina, giusto il tempo per afferrarmi, io mi aggrappo al suo braccio e sento le sue mani intorno alla vita. Recupero un minimo di equilibrio e per un istante rimaniamo così, abbracciati.
«Oh, scusami». Balbetto, rossa come un peperone.
«Tu sei la mia dirimpettaia, vero? Lascia che ti aiuti». E intanto allunga una mano e prende da terra la borsa della spesa e il mio computer.
È alto, e profuma di colonia. Assieme ci avviamo verso l’ascensore.
«Questa deve essere tua». Mi dice, porgendomi la lettera.
Io annuisco ma gli rispondo che è da buttare, poi l’appallottolo e la lascio cadere nel cestino che sta nell’atrio, sotto le cassette della posta.
«Dopo di te». Mi dice, quando si aprono le porte dell’ascensore. Io sorrido e lo guardo.
Adoro queste galanterie d’altri tempi, e penso che non tutti i mali vengano per nuocere.
Siamo vicini e ci sfioriamo, e quando stiamo per salutarci mi chiede se mi andrebbe di cenare qualche volta con lui, visto che siamo tutti e due soli, in questa grande e ancora sconosciuta città.
Io gli sorrido e gli rispondo:
«Vedremo».



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