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LA MADRE RITROVATA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

29
MAR
2018

Era da qualche tempo che verso le quattro del pomeriggio una signora anziana, il viso coperto di rughe, capelli candidi e un cappotto liso, veniva nel bardove lavoro e prendeva un tè.
Io, quando la vedevo accomodarsi al solito tavolo mi avvicinavo e le chiedevo se le dovevo portare il solito… Lei mi guardava, sorrideva e rispondeva di sì con un semplice cenno del capo.
Un pomeriggio, dopo aver finito di sorseggiare il suo tè e mangiato qualche biscotto che aveva tirato fuori dalla sua borsetta, mi fece cenno di avvicinarmi.
«Tutto bene signora? Gradisce altro?» Le chiesi. Lei rispose di no e ringraziandomi allungò il denaro per la consumazione e un biglietto che teneva nell’altra mano.
«Per favore, quando sarò uscita, leggi ciò che c’è scrittoqui. C’è anche un numero di telefono. Vorrei tanto che mi chiamassi. Ho delle cose importanti da dirti e anche da chiederti».
Detto ciò, si alzò e uscì. Io misi in cassa gli spiccioli, infilai il biglietto in tasca e continuai il mio giro tra i tavoli e i clienti del bar-tavolacalda in cui lavoravo.
Solo la sera, quando sono tornata a casa, nell’appartamentino che condivido con Luca, il mio compagno, estraendole cose che avevo in tasca, sentii tra le dita quel foglietto. Posai il cellulare sul tavolo e incuriosita lo aprii e lessi:
“Carissima Ivana, sarai senz’altro sorpresa, ma chi ti scrive è la tua mamma. Vorrei tanto che tu mi chiamassi, che anche tu sentissi il bisogno di parlare un po’ con me. Vorrei poterti dire di persona quanto mi sia dispiaciuto aver dovuto compiere quel gesto, averti affidato a quella famiglia senza figli. Il dolore che ho provato alloraè stato immenso ed è ancora vivo e sempre presente in me. Vorrei tanto che tu capissi che non è stato facile, che non l’ho fatto a cuor leggero. Erano altri tempi. Papà era molto malato e non lavorava ed io, con il mio lavoro a ore, non riuscivo a far fronte a tutte le speseper le cure di papà e,soprattutto, adallevare te come avresti meritato e avrei voluto. Ti vedevo crescere, in questa vecchia casa, in questecamera e cucina fredde e buie, e mi convinsi che la miglior cosa da fare per te sarebbe stata quella di lasciarti andare a vivere con quella coppia che aveva dimostrato tanto affetto nei tuoi confronti. Io non verrò più a trovarti. Sono venuta in questo periodo perché volevo vederti. Sentirti vicino, anche solo il tempo di sorseggiare il tè. Sono vecchia, Ivana, ma non voglio morire con lo scrupolo di averti fatto del male e con l’angoscia che tu possa pensare di essere stataabbandonata. Chiamami per favore, ti supplico. È la tua vecchia mamma che te lo chiede”.
Letto la lettera, mi irrigidii e gettai il foglio sul tavolo. Cosa voleva, dopo tanti anni di silenzio, quella donna che diceva di essere mia madre?
Avevo quattro anni quando mi affidò a una coppia senza figli che veniva spesso a trovarla. Lui era un signore distinto, elegante e taciturno, mentre la moglie era molto gentile, soprattutto con me. Quando arrivava, portava sempre una ventata d’allegria nella nostra casa. Mi salutava, mi accarezzava i capelli e aveva sempre le tasche piene di caramelleche miporgeva sorridendo. Mi diceva di mettere le manine a coppa e poi le riempiva di dolciumi. Mi portava dei vestitini, dei giocattoli, bambole soprattutto, di quelle che aprivano e chiudevano gli occhi, che chiamavano mamma o che si potevano pettinare e cambiare d’abito. Dopo, mentre io ero intenta a scartare i regali e non pensavo ad altro, la signora si appartava con mia madre e da quel momento cominciava tra loro un parlottiofitto fitto e sommesso. A volte la coppia mi invitava a uscire con loro. Mi facevano salire nella loro lussuosa macchina e mi portavano a passeggio. Andavamo a prendere un gelato o alle giostre. In macchina, o quandoeravamosole, la signora mi faceva mille domande: se volevo bene alla mamma, se mi avrebbe fatto piacere trascorrere un po’ di tempo con loro, se mi sarebbe piaciuto andare ad abitare in una grande città elì frequentare la scuola. E tante altre domande che ora non ricordo più.Poi, un giorno,la signoravenne a casa nostra con tanti regali per me e per la mamma,mentreil marito la seguiva con una valigia.
Mia madre già da qualche giorno era inquieta, nervosa, a volte la scorgevo con le lacrime agli occhi, sempre triste e taciturna. Mi abbracciava spesso, mi diceva che la signora mi voleva bene, che mi volevaportare con sé a fare un lungo viaggio, che voleva portarmi a casa sua: una casa moderna, grande, riscaldata e con una cameretta tutta per me, e che lei sarebbe venuta a trovarmi spesso. E se io non mi fossi trovata bene con loro, o avessi avuto voglia di tornare da lei, non avrei dovuto fare altro che dirlo alla signora e subito mi avrebbe riportato a casa.
Io, quei discorsi di mia madre e nemmeno quelli della signora, all’epoca non li capivo. Trovavo del tutto naturale voler bene a mia madre e continuare a vivere con lei in quella casa, anche dopo la morte di mio padre. Ma vedere spesso quella signora che arrivava carica di regali,tutti per me, lo trovavo altrettanto naturale e mi faceva piacere che venisse così spesso a trovarmi e che mi portasse a passeggio.
Quella mattina la mamma mi aveva fatto il bagnetto e quando arrivò la coppia mi vestì conl’abitino e le scarpe nuove che aveva portato la signora. Mia madre continuava ad accarezzarmi, mi teneva in braccio e intanto rivolgeva mille raccomandazioni alla signora. Io ero confusa, sorridevo, ma vedevo mia madre piangeree mi intristivo, non capivo. Intanto la signora riempiva la valigia con le mie cose: pigiamini, abitini, cuffiette, cappottino, magliette, scarpine e poi mi chiese se volevo andare a fare una passeggiata con lei. Ricordo che guardai mia madre. Era interdetta. Aveva gli occhi arrossati e le lacrime le scivolavano lungo gli zigomi. Balbettò uno stentato:
«Vai con la signora, amore mio»e, messami tra le sue braccia, si coprì il viso con le mani.
Mi portarono a casa loro e mi fecero vedere quale sarebbe stata la mia nuova cameretta, ma io mi misi a piangere e chiesi di tornare dalla mamma. La signora, da prima cercò di calmarmi e poi mi disse che per un po’ di tempo quella sarebbe stata la mia casa, che la mia mamma non stava bene e che l’aveva pregata, finché non si fosse ripresa,di tenermi con loro.
In quella casa non ci restai fino a quando mia madre guarì, ma sino al compimento del diciannovesimo anno. Crebbi lì dentro e frequentai la scuola dell’obbligo, non oltre.
Una volta, ero ormai cresciuta, la signora mi disse che potevo chiamarla mamma, ma io le risposi che, se proprio voleva, l’avrei potuta chiamare zia. Allora si irrigidì e mi disse che se non volevo chiamarla mamma, avrei dovuto continuare a chiamarla signora.E in quel momento capii che le sue parole confermavano quello che già sapevo:in quella casa ero solo unaserva. Lavavo, stiravo, cucinavo, spolveravoe della mamma non ebbi più notizie.
A diciannove anni conobbi una ragazza che lavorava come cameriera in un bar, facemmo amicizia e mi trovò lavoro. Feci anch’io la cameriera. Ero sempre vestita di nero, conun'unica eccezione, il tocco bianco del grembiulino ricamato che portavo sopra la gonna.
Me ne andai da quella casa senza rimpianti, anche se quando accadde, la signora mi disse che ero un’ingrata, una ragazza senza cuore.
«Mi puoi amare o odiare, entrambi sono a mio favore. Se mi odi, sarò sempre nella tua mente, se mi ami, sarò sempre nel tuo cuore».
Mi rispose, con quel piglio arrogante che purtroppo le affiorava sempre, anche nelle conversazioni più tristi e intime. E dicendo così, emanò quell’alone di gran dama che non smetteva di esibire nemmeno nelle situazioni più penose.
«Io non odio, né amo nessuno. Vado via perché voglio essere la padrona del mio destino e voglio decidere da sola cosa fare della mia vita». Le risposi.
Per qualche tempo mi ospitò quella mia amica, poi conobbi Luca e andammo a vivere insieme.Qualche volta, quando ero da sola, pensavo a mia madre. Avrei voluto sapere di lei, incontrarla, chiederle tante cose. Sapere perché mi avesseabbandonata e lasciato andare via con quella coppia. Ma poi, superato il momento di nostalgia, non ci pensavo più e tornavo al mio quotidiano.
E adesso? Adesso, dopo più di vent’anni, una signora mi mette un biglietto tra le mani e mi chiede di leggerlo, e scopro che si tratta di mia madre. Che dovrei fare?
Lo dissi a Luca e gli chiesi consiglio, e lui rispose che non mi sarebbe costato niente chiamarla e dirle che l’avrei incontrata volentieri. In fondo era una cosa che desideravo anch’io, eda sempre.Ritrovare mia madre, mi aveva ricordato, era sempre stato un mio cruccio, il mio sogno.
Lasciai trascorrere qualche giorno, nella speranza di vederla tornare nel locale e sedersi al solito tavolo, ma non si fece più vedere. Di lei non sapevo nulla, avevo solo quel biglietto che da quando me lo aveva dato portavo sempre con me. Ero stata affidata a quella coppia quando ero troppo piccolaper capire. Avevo poco più di quattro anni quando andai a vivere con loro. A casa di mia madre non tornai più e la signora non voleva che chiedessi di lei. Se tra le lacrime chiedevo di mia madre, tagliava corto e mi rispondeva che ora mia madre era lei e quella la mia casa.
Non sapevo dove abitasse, se in città o in qualche paese vicino, intanto il tempo passava e io cercavo di non pensarci. Sapevo che mio padre era morto quando ero ancora piccola, e sapevo anche che mia madre viveva da sola, ma dove?
Comunque, quel biglietto si era rivelato qualcosa didevastante eaveva scatenatoin me un’irrefrenabile voglia di rivedere mia madre. La chiamai una sera, mentre ero da sola in casa. Luca, con il suo lavoro di turnista sarebbe tornato dopo la mezzanotte e allora presi il coraggio a due mani e composi quel numero trovato sul foglietto.
Al terzo squillo rispose una voce stanca, quasi impercettibile. Era mia madre e subito riconobbi la sua voce. E anche se avevo un elenco di cose infinite da chiederle, riuscii a dirle solo: sono io, Ivana. Non riuscii ad andare oltre, il pianto mi serrò la gola. Lei mi disse qualcosa, mi chiamava per nome, mi chiedeva se ero proprio io. Piangeva. Infine m’invitò a casa sua. Mi chiese di andare a trovarla. Non vedeva l’ora di vedermi.
Riposi il cellulare e piansi senza ritegno, lasciandomi trasportare dove le lacrime mi stavano portando.
Quando Luca tornò a casa, gli raccontai della telefonata, che avevo parlato con mia madre e che mi aveva chiesto di andare da lei e per questo gli chiesi di accompagnarmi. Malui mi consigliò di andarci da sola.
«Non mi sembra una buona idea. Se vengo anch’io, sarei d’intralcio. Non potreste parlare liberamente, come vorreste e com’è necessario che sia. È conveniente che tu ci vada da sola».
Quel giorno non vedevo l’ora di mettermi in macchina e raggiungere mia madre. Avrei voluto anche anticipare l’incontro, farle una sorpresa. Ma poi pensai che avesse bisogno di un po’ di tempo per riordinare la casa, magari andare dal parrucchiere. E soprattutto avesse bisogno dipensare a ciò che voleva dirmi.
Lasciata la tangenziale e presa la strada che saliva verso il paese, riconobbi il luogo dalla tristezza delle case. Era un paese di poche anime,abbarbicato su una collina brulla, con qualche albero che faceva ombra alle pecoreche pascolavano sui prati.
Trovai mia madre che mi aspettava sulla porta. Il viso scavato. Le gote:due bottoni incavati. Gli occhi arrossati e il sorriso che rifletteva l’ingenuo desiderio di piacermi.
Entrando in cucina riconobbi subito la vecchia credenza smaltata e piena di crepe.
La casa era tutta lì, una camera e cucina, al piano terra di una vecchia casa dicampagna.
L’imbarazzo si poteva tagliare con il coltello. Non sapevamo da dove cominciare.
Mia madre ruppe gli indugi e traendo dal forno una torta, chiese?
«Te la ricordi la torta di mele? Ti è sempre piaciuta».
Io scossi la testa. Non ricordavo di aver mai mangiato una torta di mele in quella casa.
«Ivana…» proseguì poi, con la voce rotta dal pianto:
«Grazie per essere venuta. Non ci speravo più».
Le dissi che anch’io avevo perso ogni speranza di ritrovarla e le chiesi come mai, dopo tanti anni, avesse deciso di cercarmi; perché mi avesse affidato a quella coppia e, visto che sapeva dove stavo, perché non fosse mai venuta a trovarmi.
Si mise le mani sul viso e scoppiò a piangere. Mi chiese scusa. Mi pregò di perdonarla. Mi disse che a parlarne ora tutto sembrava semplice, ma quando eropiccola e papà gravemente malato, nessuno si fece avanti per aiutarla e lei non sapeva più cosa fare per tirare avanti.
«Papà non lavorava, era malato da tempo e le medicine costavano un occhio della testa. Avevo te da crescere ma non avevo niente da darti. Non riuscivo a mettere insieme il pranzo con la cena. Si mangiava verdura selvatica che andavo a raccogliere in campagna, il latte per te lo chiedevo a dei contadini che avevano delle mucche. Io contraccambiavo con piccoli lavoretti di rammendo e loro mi davano anche qualche sacchetto di patate e qualche volta del formaggio. Cucivo a maglia golfini, calzettoni e guanti di lana per i figli. Ma soldi in casa non se ne vedevano mai. Tu crescevi e io non sapevo come fare per comperarti le scarpe, un cappottino nuovo. Ero costretta, per farti stare al caldo, a voltare, rivoltare e adattare vecchi panni miei. Poi andai a lavorare a ore in città. Facevo la domestica, o per meglio dire la sguattera. Scegli tu il termine, tanto la sostanza non cambia. Mi alzavo presto e correvo in città. Due ore da una famiglia, altre due da un'altra einfine mi trovai a lavorare in casa di quella coppia che sai. Parlai con loro della mia situazione, delle difficoltà che avevo per curare papà e crescere te, che in quel periodo avevi anche la pertosse. La signora si dimostrò comprensiva e mi stette a sentire. A volte mi dava qualche spicciolo in più: compra qualcosa per tua figlia, mi diceva. Poi… poi… un giorno mi propose di portarti da lei. Ti voleva conoscere equando ti vide, si intenerì. Così… così cominciò a venire a casa nostra. Ti portava dei dolci, mi lasciava dei soldi, ti portava a fare delle passeggiate. Poi è morto papà ed io non sapevo più cosa fare. Il parroco del paese mi aveva anche proposto di parlare con le suore. Lì, mi disse, ti avrebbero fatto studiare, ti avrebbero dato un’educazione. Ci andai a parlare con le suore, ma non me la sono sentita di lasciarti lì da sola, in quel convento freddo e cupo, e allora ho accettato la proposta di quella signora. Mi disse che avrei potuto vederti quando volevo, mi assicurò che ti avrebbe riportato a casa se solo tu non ti fossi trovata bene o avessi avuto nostalgia di me. Ma le cose non sono andate così. Quando chiedevo di vederti mi rispondeva che era meglio di no. Che tu eri tranquilla, che non mi nominavi mai e il rivedermi sarebbe stato un trauma per te, uno stravolgere la tua ritrovata serenità. Mi dava qualche soldo e mi mandava via. Allora ho preferito non disturbarla più. Non volevo potesse pensare che andavo a chiedere di te solo per avere in cambio del denaro. Ma ti ho visto crescere, sai. Ti aspettavo sotto casa e quando uscivi per andare a scuola ti seguivo. Eri sempre in compagnia di una tua amichetta e un giorno, non vedendoti, le ho chiesto di te. Così seppi che eri rimasta a casa con la varicella. Ero preoccupata e sino a quando non ti ho visto ritornare a scuola, non riuscii a rasserenarmi. Poi a scuola non ci sei andata più, e allora per vederti sono stata costretta a ore e ore d’attesa all’angolo della strada. Uscivi raramente e a orarisempre diversi. Correvi. Poi il tempo è passato esei cresciuta, sei diventata donna eun bel giorno non ti ho vista più. Allora mi sono fatta coraggio e ho telefonato alla signora per chiedere notizie, e lei ha sbottato con rabbia che eri andata via di casa: Ingrata, ecco quello che è tua figlia, un’ingrata, mi disse. Dopo tutto quello che abbiamo fatto per lei se ne è andata a fare la cameriera in una tavola calda. Bell’alzata d’ingegno ha avuto. Un bel salto di qualità. Qui faceva la signora e lì fa la cameriera. Ingrata di un’ingrata. E mi ha chiuso il telefono in faccia. Ma mi aveva anche detto che eri andata a lavorare in una tavola calda, e allora ho cominciato a cercarti per tutta la città, sino a quando ti ho trovato in quel locale. Stavi bene, mi sembravi anche felice, così sono entrata e mi sono seduta in un angolo per poterti guardare. Quando ti sei avvicinata, mi sono venute le lacrime agli occhi e sono riuscita a dirti solo: te…, ma tu hai capito che volevo un tè, e così me lo hai portato. Sono tornata ancora per rivederti, per sentirti vicino, e poi non ce l’ho fatta più. Dovevo dirtelo, chiederti scusa, figlia mia, Dovevo farti sapere che ero tua madre. Dovevo dirti perché ti ho lasciato andare a vivere con quella coppia. Ora sono vecchia, Ivana, e non voglio morire con questo peso sulla coscienza. Ti ringrazio di avermi ascoltato e, se puoi, ora cerca di perdonarmi.
Poi zittì. Alzò la testa per cercare il mio viso, il mio sguardo, ma io non seppi risponderle e scoppiando a piangere l’abbracciai.
Tornata a casa, raccontai tutto a Luca. Gli dissi che l’avevo incontrata. Gli dissi che mi aveva spiegato i motivi che l’avevano indotta a lasciarmi andare con quella signora e del perché non si fosse fatta più vedere. Gli dissi che abitava sempre in quella vecchia buia casa ancora senza riscaldamento,dove ero nata io e che viveva con lasua misera pensione sociale.
«E le hai detto niente di noi, di me? Le hai detto che aspettiamo un bambino?»
Mi chiese Luca, e io risposi che non le avevo detto nulla di noie che per il bambino, essendo ancora al secondo mese, ci sarebbe stata senz’altro un’altra occasione per dirglielo.
«Andiamoci domenica, a trovarla. Così me la presenti e magari, se tu sei d’accordo, visto che se la sta passando proprio male, le chiediamo di venire a vivere con noi. La casa è grande e potrebbe occuparsi di nostro figlio, mentre siamo al lavoro. Che ne dici?» Chiese.
Rimasi dubbiosa. Guardai Luca e pensai che stesse cercando in mia madre la sua, che aveva perso quando era ancora molto piccolo.
Comunque la sua proposta poteva essere una soluzione. Avrebbe permesso a mia madre di trascorrere in serenità quello che le restava da vivere, e a noi di affidarle nostro figlio, senza dover ricorrere a una baby sitter.
Il giorno dopo chiamai mia madre e in una lunga telefonata le dissi che vivevo con Luca, un bravo ragazzo che non aveva mai conosciuto i suoi genitori perché erano morti quando era ancora piccolo e che era solo come me. Le promisi che saremmo andati a trovarla e le proposi anche di venire qualche giorno a stare con noi, per vedere dove abitavo, per rendersi conto se le sarebbe piaciuto viverci per sempre.
«Figlia mia, non ti ho cercato per questo. Mi basta sapere che mi hai perdonato e non voglio darti grattacapi. Sono vecchia, che ve ne fate di una come me che gira per casa. Darei solo fastidio».
Ma la domenica successiva Luca ed io andammo a trovarla. Le dissi che aspettavo un bambino e le proposi di nuovo di venirea vivere con noi per fare la nonna a tempo pieno.
Lei guardò prima Luca, poi me, e scoppiò in un piando dirotto. Ma quelle erano finalmente lacrime di gioia.
Sono passati quasi più di trent’anni da quei giorni. Mia madre è stata una nonna affettuosa per i miei due figli ed è vissuta con noi fino a quando, tre mesi fa, è mancata. In questi anni abbiamo recuperato il tempo perduto e posso dire, senza più rimpianti, che ci siamo riuscite.
 



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