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VIDEOPOKER

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

26
LUG
2018

Appena rientrata a casa dal lavoro ho avvertito subito un’atmosfera pesante, senza per altro riuscire a decifrarla, ma ormai ero abituata e non ci facevo quasi più caso.
Marco, nostro figlio, mi salutò a stento, era nervoso e allora cominciai con le mie solite domande.
«Stai così per colpa della scuola?»
«No». La sua secca risposta.
«Hai qualche problema con il tuo allenatore di calcio? Ti ha comunicato che Domenica non giochi e sei nervoso per questo?».
«No». La replica.
«Per caso hai litigato con la tua fidanzatina?»
«No. No. No». Rispondeva a ogni mia domanda, ma era cupo e lo sguardo bucava il vuoto.
«Ma insomma, cos’hai?» Gli chiesi spazientita.
«Non ho niente, lasciami in pace».
Erano settimane che in casa girava un’aria tesa, e nostro figlio stava assorbendo il nervosismo e i malumori che lo circondavano, e ce li restituiva con i suoi silenzi, rispondendo a monosillabi o in malo modo.
Io e mio marito stavamo litigando da tempo e ormai ci parlavamo a stento. I motivi? Sempre gli stessi: problemi finanziari. Il conto corrente perennemente in rosso, ma soprattutto la preoccupazione di non riuscire più a pagare la rata del mutuo della casa.
Poi bisogna aggiungere il rapporto sterile che si era venuto a instaurare tra noi e la vita noiosa che conducevo, scandita solo dai doveri e senza nessuna soddisfazione, senza mai una giornata di serenità. In una parola mi sentivo schiacciata dal peso delle responsabilità, ma di questo nessuno sembrava accorgersene.
Lavoravamo entrambi, ma del mio stipendio restava ben poco. Se lo tratteneva tutto la banca per le rate del mutuo e per pagare le bollette della luce e del gas, e spesso non bastava nemmeno. Quello di mio marito, invece, se ne andava per le spese quotidiane e il resto lo dilapidava lui, senza spiegare né come né dove, e alla metà del mese eravamo già in rosso. Se gli chiedevo dove fossero finiti i soldi, ottenevo solo risposte evasive, e se mi permettevo di insistere si finiva col litigare.
Quel giorno Marco era tornato a casa con il programma della gita di cinque giorni che la scuola stava organizzando in Toscana e lui, come del resto tutta la classe, aveva assicurato la sua partecipazione ma, conoscendo la nostra situazione, per un po’ ci aveva girato intorno, poi era venuto da me a chiedermi la somma necessaria.
Io gli domandai di quanto avesse bisogno, ma quando mi sentii rispondere che la quota superava i 300 euro, gli risposi che avrei dovuto parlarne prima con suo padre.
«Con papà ho già parlato io e mi ha detto di rivolgermi a te».
«È una bella somma, poi avrai bisogno anche di qualcosa per le tue spese personali. Ma è proprio necessario che tu ci vada?» Gli chiesi.
«Ma mamma, sono al quarto anno dell’artistico. È importante andarci. Si visiterà Firenze, Siena, e a Pisa ci sarà anche l’incontro con il rettore del corso di laurea in scienze dei Beni Culturali». Mi rispose, con insofferenza e nervosismo.
«Va bene. Dammi solo un po’ di tempo, ma non ti preoccupare che in gita ci andrai di sicuro». Gli risposi, ma intanto mi stavo già angosciando, perché sapevo che non sarebbe stato facile trovare quella somma. Eravamo a metà del mese e nel portamonete avevo solo i soldi necessari per la spesa della settimana.
«Marco mi ha detto che te ne ha già parlato. I soldi gli servono per la gita scolastica. Ci va tutta la classe e anche lui ci vuole andare».
Dissi a mio marito, dopo aver cenato e mentre stavo sparecchiando.
«Io a scuola ci andavo per studiare, e non sono mai andato in gita. Adesso a questi ragazzi riempiono la testa di cose inutili, invece di insegnare loro quello che serve nella vita. E poi l’ho già detto, dopo il liceo vuole andare all’Università e prendere Beni Culturali? Bene, ma a che gli serve questa laurea? Comunque, se vuoi, daglieli tu i soldi» Mi rispose piccato, e con quell’odiosa aria di sufficienza che tirava fuori ogni volta che non condivideva gli interessi degli altri, ma volendo far prevalere solo i suoi.
Quella risposta mi procurò un tale nervosismo che iniziammo a litigare.
«Ma papà, perché i soldi dovrebbe darmeli la mamma che guadagna meno di te». La domanda che stavo per formulare io, la fece nostro figlio che sentendo parlare della gita era rimasto sull’uscio dalla sua camera.
Mi sono sentita a disagio e mi turbai, perché quei discorsi avremmo dovuto farli in privato e non alla presenza di Marco.
Ennio, comunque, non gradì quell’intrusione e contrasse le labbra in un gesto di stizza e rabbia. Il viso gli diventò paonazzo e subito padre e figlio cominciarono a litigare e volarono parole grosse.
Così deciso mio figlio non lo avevo visto mai, tanto che la situazione stava degenerando e allora mi intromisi e cercai di calmare le acque, e dissi a Marco:
«Perché ti rivolgi in questo modo a tuo padre? Non è questa l’educazione che hai ricevuto».
«Lo sa benissimo lui, perché. Tu mamma stai sempre a fare economia, a chiederti dove siano andati a finire i soldi, mentre lui lo sa benissimo, perché va a sperperarli in una sala giochi, e li sperpera in quelle maledette macchine mangia soldi. E a me rifiuta il denaro per la gita». E detto questo tornò a chiudersi in camera sua.
Rimasti soli, chiesi spiegazioni a mio marito, ma lui mi assicurò che era stato un caso che lo avesse visto entrare lì dentro, perché ci andava qualche volta e solo per curiosare, per passare il tempo, dopo cena.
Ma intanto cominciai a capire, a rendermi conto che tante domande e tanti dubbi adesso stavano ottenendo risposta: la cronica mancanza di liquidità, le ore che passava fuori di casa e non diceva mai dove andava o dove era stato, il suo continuo chiedere soldi in prestito al padre, che prometteva di restituire al più presto e non succedeva mai.
Due sere dopo, Ennio stava uscendo per fare la solita passeggiata e io smisi di lavare i piatti, mi tolsi il grembiule e senza farmene accorgere lo seguii. Lo vidi entrare in uno di quei locali e sedersi davanti a una macchina mangiasoldi. Quando tornò a casa, non gli dissi niente, ma da quella sera, ogni qualvolta usciva per fare una passeggiata, lo seguivo e immancabilmente lo vedevo entrare in quella sala giochi.
Un pomeriggio, tornando a casa dal lavoro, mentre mio marito era ancora in falegnameria, mi feci coraggio e con faccia tosta entrai in quel locale e chiesi al signore che stava seduto alla cassa, probabilmente il proprietario, se avesse visto Ennio. Se per caso quel giorno fosse stato lì.
«No signora, oggi Ennio non si è ancora visto. Ma lui è un abitué della sera, se vuole trovarlo deve venire dopo cena. Solo il sabato viene anche il pomeriggio. Comunque, quando lo vedo chi devo dire che lo cerca?»
«Nessuno grazie, e non le dica nemmeno niente, troverò io il modo di incontrarlo prima di sera». Gli risposi, e senza aspettare la risposta uscii sconvolta.
Non ci potevo credere, quello che guadagnava a fatica nella falegnameria in cui lavorava, lo buttava via giocando ai videopoker, con quelle macchinette mangia soldi. E così si spiegava anche il perché eravamo sempre al verde e non si riusciva ad arrivare nemmeno alla metà del mese.
E se gli chiedevo spiegazioni, cosa ne avesse fatto del denaro, mi rispondeva a malo modo o trovava mille scuse. Diceva che il suo datore non lo aveva ancora pagato, che aveva dovuto restituire i soldi al padre, che aveva portato la macchina a cambiare l’olio, ma che si erano scoperti dei danni al motore e aveva dovuto far sostituire i pezzi. Mille scuse, mille bugie, ma la verità adesso era venuta a galla e stava sotto i miei occhi.
«Dimmi la verità. Guardami negli occhi e dimmi la verità. Tu hai il vizio del gioco e vai a buttare i soldi in quelle macchinette. Altro che le scuse che ti inventi volta per volta, quando ti chiedo dove è andato a finire il tuo stipendio». Gli dissi una sera, mentre si stava infilando la giacca e stava per uscire.
Lui si girò, chiuse gli occhi a fessura e mi guardò come se avessi bestemmiato.
«Ammettilo, per una volta, sii uomo e ammettilo, è lì che vai a buttare i soldi, in quella sala giochi, in quel buco nero senza fondo. Hai il vizio del gioco ed è questo il motivo per cui in casa non ci sono mai soldi, anche se ci ammazziamo di lavoro». Replicai.
«Non ho nessun vizio. Passo un po’ di tempo lì dentro, ma vedrai che mi rifarò. Prima o poi mi capiterà la giornata buona, è successo ad altri e le vincite le ho viste con i miei occhi. Capiterà anche a me, devo insistere, avere solo un po’ di pazienza». Rispose sdegnato.
Mi sembrava di essere la protagonista di un film dell’orrore, e fui presa da una paura folle: paura di non poter più far fronte alle spese quotidiane, paura di non poter più permettere a Marco di studiare, paura di non essere in grado di mandarlo all’università. Ma soprattutto mi vedevo già la casa pignorata, portata via dalla banca perché non eravamo più in grado di pagare il mutuo.
“E se poi perdesse anche il lavoro?” Pensai. Ero disperata, scoppiai a piangere e maledissi quelle infernali macchinette che dopo aver divorato mio marito, i nostri risparmi e il suo stipendio, adesso stavano inghiottendo anche il nostro futuro e quello di nostro figlio.
«Ma tu, sei consapevole di essere stato travolto da un vortice che ti porta ad avere una seria dipendenza del gioco?» Gli chiesi tra le lacrime.
«Tu non capisci, io lì dentro ci vado solo per scaricare la tensione. È un modo per tentare la fortuna. Punti il dito solo perché non ho ancora vinto, ma se vincessi…» E io lo guardai allibita.
Cercai di calmarmi, di spiegargli che insistere con il gioco d’azzardo sarebbe stato una follia, che i videopoker erano una droga e potevano rovinarci tutti, mandare all’aria anni di sacrifici.
Con calma gli feci notare che eravamo ancora in tempo, che potevamo ancora salvare la situazione, e gli suggerii, per mettere la parola fine a quella malattia, di farsi curare.
Gli dissi che c’erano dei centri che aiutavano e curavano le persone affette da ludopatia e lì avrebbe potuto trovare la soluzione al suo problema. Gli dissi che mi ero informata, che mi avevano detto che per iniziare doveva uscire di casa con pochi spiccioli in tasca, se non proprio senza soldi, e che era indispensabile che non frequentasse più quella gente, quei posti dove si giocava d’azzardo e che, finito di lavorare, doveva tornare subito a casa e non uscire più.
Gli dissi che mi avevano spiegato che lui era semplicemente attratto dall’eccitazione del gioco e dalla speranza di arricchirsi in fretta: caratteristica questa di tutti i giocatori d’azzardo che immancabilmente finiscono col diventarne schiavi e accorgendosene solo troppo tardi, quando ormai si sono rovinati.
«Ti prego, fai come ti dico, prima che ti divori la malattia e finisca per portare tutta la famiglia nel baratro e nella disperazione». Non rispose, ma nei suoi occhi lessi la paura di dover affrontare la cruda realtà e rinunciare a quel mostro senza volto che è il gioco d’azzardo.
«Io non ho bisogno di cure, io smetto quando voglio, e tu stai solo esagerando». Mi rispose, mentre fermo sul pianerottolo, tra la porta e le scale, non sapeva più cosa rispondere.
«No papà, la mamma ha ragione. C’è gente che arriva al suicidio quando si accorge di non riuscire più a smettere di giocare e si rende conto di essersi rovinata». Mi girai, e Marco era dietro di noi che ci stava guardando.
Ennio fece spalluccia e, mentre stava chiudendo dietro di se la porta d’ingresso, disse che le nostre preoccupazioni erano solo esagerazioni.
«Papà, deciditi… o fai come dice mamma, ma se non hai intenzione di affrontare il problema è meglio che te ne vai stasera stessa, subito di casa, prima che trascini anche noi nel baratro della tua follia». Ennio si girò verso di me e mi guardò negli occhi, ma capì che ero d’accordo con quello che stava dicendo Marco.
Il suo problema non poteva diventare anche il nostro e se non voleva farsi aiutare, farsi curare, era meglio che se ne andasse per sempre e ci lasciasse vivere in pace, perché ero sicura che io e mio figlio, da soli, ce l’avremmo fatta a rimetterci in sesto.
Ennio era immobile sulla porta e Marco gli allungò un foglietto.
«Questo è il numero di telefono del centro servizi per la tossicodipendenza e per le dipendenze patologiche. Prendi un appuntamento».
Ennio se lo girò tra le mani e poi lo mise in tasca.
Pensoso, indeciso se uscire o rimanere, alla fine tornò in casa, si tolse la giacca e si sedette sconsolato sul divano.
«Papà, ci hai dato tanto, ma la mamma ha ragione, devi curarti. Da quando hai preso questo brutto vizio, sei cambiato, e da allora in questa casa non c’è più serenità». Gli disse Marco, mettendogli una mano sulla spalla prima di tornare in camera sua.
Io mi sentivo stretta tra il rimorso per quello che gli avevo detto e il rimpianto per non averglielo detto prima, ma soprattutto mi chiedevo se mio marito avrebbe accettato il mio consiglio, e se le parole di Marco lo avessero scosso.
Mi sedetti accanto, gli presi la mano e gli dissi che avrei voluto tornare a guardarlo di nuovo serenamente negli occhi, lo pregai di lasciarsi aiutare, di pensare a quello che gli avevamo detto, perché volevo che la nostra famiglia tornasse serena e unita.
Era teso, silenzioso, ma mentre gli parlavo annuiva, mi disse si con il capo e io, accarezzandogli la spalla, gli sussurrai che gli volevo bene».
 



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