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ATTRICE MANCATA

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

2
AGO
2018

C’è chi nasce con la camicia. Fortunato. E io? Io ho vissuto la giovinezza in un piccolo paese di provincia, quattro case, un campanile e un bar. La nostra casa era fuori mano, lontana dal centro, lontana da tutto che non si vedeva nemmeno. E mio padre non ha mai finito di costruirla e ancora adesso, dopo tanti anni, i mattoni sono ancora lì, da intonacare.
Mio padre lavorava in campagna, si spaccava la schiena tutto il giorno su quella terra arida e sassosa e la sera si addormentava davanti al piatto. Possedeva una macchina così vecchia e sgangherata da farmi vergognare e non ci sono mai voluta salire, nemmeno per farmi accompagnare a scuola, quando pioveva. Mia madre invece si occupava della casa e dell’orto, delle galline e dei conigli e, se le restava un po’ di tempo, andava in campagna con mio padre.
Di casa uscivo solo se necessario: se me lo chiedeva mia madre o per andare a comprare le medicine per mio padre e, quando arrivavo in paese, l’unico che sembrava accorgersi di me era Sergio, il figlio del barista che conoscevo da sempre perché avevamo frequentato le scuole assieme.
Io ho finito a stento le superiori e mi sono diplomata per il rotto della cuffia, poi ho iniziato a dare una mano ai miei. Non avevo amiche, non avevo il ragazzo e per questo mi ritrovai da sola. La sera non uscivo mai, mi rintanavo in camera mia e, acceso il computer che mio padre dopo tante insistenze mi aveva acquistato, cominciavo a chattare con i ragazzi in webcam. Con qualcuno feci amicizia, con altri parlavo di sesso. Mi ripetevano che ero bella, che avevo un fisico da urlo. Volevano conoscermi, fare l’amore con me.
Una notte, avrò avuto vent’anni, ero come il solito davanti al computer e un uomo maturo chiese se mi sarebbe piaciuto partecipare a un reality, se fossi stata interessata a lavorare in tivù. Io, senza esitazione gli risposi di sì, e allora iniziò con le promesse, a parlarmi di possibilità e progetti.
Mi disse che era un agente di spettacolo, un management artistico che offriva consulenze e formazione a cantanti e artisti. Mi assicurò che io avevo il volto che bucava lo schermo, un fisico da urlo e che, con i suoi consigli e sotto la sua guida, avrei potuto guadagnare un mare di soldi, viaggiare, fare sfilate, conoscere gente famosa e alloggiare in alberghi di lusso. E mi elencò una serie infinita di attrici che grazie al suo intervento erano riuscite a sfondare.
Voleva che andassi a trovarlo nel suo studio per fare il provino e un book fotografico. E se gli dicevo che si era fatto tardi, che avevo sonno o dovevo chiudere, tornava a ripetermi il numero del suo cellulare e insisteva perché lo chiamassi subito.
Cercai in internet il suo profilo e, quando lo ritrovai in chat, gli dissi che se fosse stato tutto gratis, sarei stata interessata e disposta a parlarne a voce. Ma non in privato, la prima volta lo avrei incontrato in un luogo pubblico. Lui si dichiarò d’accordo e, scambiati i numeri telefonici, due giorni dopo ci incontrammo in città, in una caffetteria del centro.
Ci andai da sola, e già al primo appuntamento allungò le mani, mettendomele sulle ginocchia e oltre. Disse che ero proprio una bella ragazza, ripeté che se mi fossi fidata e lasciata guidare da lui, avrei fatto strada nel mondo del cinema e della tivù. Mi invitò a seguirlo, perché voleva farmi subito un provino preliminare e anche delle foto, ma io, preferendo non sbilanciarmi troppo, gli risposi che si era fatto tardi e non avevo molto tempo. Continuò a insistere, Mi pregò, disse che era importante iniziare subito. Poi, resosi conto che le sue insistenze non sortivano nessun effetto, infastidito, si alzò e se ne andò.
Appena ci separammo, cominciarono ad arrivarmi i suoi messaggi sul cellulare. Mi scriveva che l’avevo colpito, che ero bellissima, che non dovevo perdere tempo, che c’erano migliaia di altre ragazze che avrebbero preso volentieri il mio posto, ma aggiunse che io, e ne era certo, ero una delle poche che avrebbe potuto sfondare nel mondo dello spettacolo.
Chiusa in camera mia, quella notte tornai a collegarmi in webcam e lui era lì, che mi stava aspettando. Cominciò a parlarmi della possibilità di inserirmi in un reality, in spettacoli televisivi.
Ma prima, precisò, doveva valutare le mie potenzialità, rendersi conto di com’ero fatta.
Ci pensai un po’, poi alzai la maglietta e gli mostrai il seno. E lui non la finì più di ripetermi che ero bellissima, che avevo un seno a coppa di champagne e che, se ero riuscita a eccitare lui, avvezzo al nudo femminile, chissà cosa sarebbe successo agli uomini della strada, se mi avessero visto sulle copertine di riviste e rotocalchi, ma soprattutto in televisione.
Il secondo appuntamento lo fissammo nel suo studio, un vecchio appartamento nel centro storico, dove la polvere la faceva da padrona e la carta da parati puzzava di umido. Le pareti erano tappezzate di immagini oscene, donne nude in pose provocanti, ma lui le definì: “foto artistiche”.
Mi fece accomodare sul divano, davanti alla scrivania, e chiese se avessi mai sentito parlare delle cam girl e, quando gli risposi di no, disse che le cam girl erano quelle ragazze che si spogliavano davanti al computer. E assicurò che, se avessi trascorso anche solo poche ore davanti al monitor, soprattutto di notte, e mostrandomi in biancheria intima, avrei guadagnato un sacco di soldi.
«Più riesci a trattenere l’interlocutore davanti al monitor, più guadagni. Se poi accetti di spogliarti tutta e lasci che si mostrino anche loro, guadagneresti ancora di più. Se poi, riesci a intrattenerli con discorsetti e dialoghi piccanti, il guadagno salirebbe alle stelle».
Fece l’occhiolino e subito m’invitò a spogliarmi, ma notando la mia perplessità, aggiunse:
«Sai, gli uomini pensano che le donne siano come le macchine: se la carrozzeria non cattura subito la loro attenzione, non si curano degli interni. Allora? Sto aspettando? Non aver timore, fammi vedere come sei fatta».
A quel punto gli sorrisi, mi alzai, lo mandai al diavolo e tornai a casa.
Ma il paese, come ho detto: quattro case, un campanile e un bar, mi andava sempre più stretto, e allora chiesi ospitalità a una zia di mia madre e mi trasferii in città. Trovai lavoro come cameriera, nonché tutto fare, in una pizzeria di poche pretese. Il locale chiudeva sempre tardi, spesso dopo l’ultima corsa dei mezzi pubblici ed io, spesso, ero costretta a tornare a casa a piedi.
Una sera, passando davanti a un bar, ho conosciuto Flaviano, e non so perché avesse attratto la mia attenzione. Stava parlando con altri ragazzi e quando gli passai accanto, si girò e sorrise. Qualcuno invece si lasciò andare a sproloqui e lui intervenne.
«Lasciatela in pace». Sentii dire, ed era proprio Flaviano che redarguiva i suoi amici.
«Perché? È forse tua sorella?» Gli chiese qualcuno, e subito si levarono delle risate.
«Non è mia sorella, ma una povera crista che ha finito ora di lavorare, e non ha certo voglia di starvi a sentire». E si allontanò dal gruppo per venire verso di me.
«Scusami, mi chiamo Flaviano. I miei amici non sono pericolosi, sono solo un po’ cretini, ma non devi preoccuparti. Tranquilla». Mi disse.
Flaviano aveva qualche anno più di me: bel ragazzo, capelli e occhi chiari, sorriso dolce e dava sicurezza. La notte successiva, appena uscita dalla pizzeria, mi venne incontro e chiese se poteva accompagnarmi. Visto che era tardi ed io da sola.
Da quel giorno, dopo il lavoro mi veniva a prendere e mi accompagnava a casa. Ma una sera, deviando dal percorso abituale, mi portò in un posto isolato e io non mi opposi. Così, abbastanza presto mi ritrovai incinta. Decidemmo di sposarci e fu proprio Flaviano a chiedermelo, e credo che quello sia stato il momento più felice della mia vita. I preparativi furono frenetici, ma con l’aiuto dei suoi genitori e un po’ anche dei miei, riuscimmo a mettere su casa e a sposarci prima della nascita del bambino. E quel giorno fu davvero bellissimo: nel mio abito bianco mi sentivo una regina, e poco importava se tra le falde spuntasse prepotente la mia gravidanza.
I primi tre anni furono bellissimi. Eravamo una famiglia unita: io mi occupavo della casa e del bambino e la sera, tornato Flaviano, gli preparavo la cena e correvo in pizzeria. Ma ben presto le cose cambiarono. Flaviano era cambiato. Mi trascurava, non mi cercava più, era sempre nervoso o aveva la mente altrove. E una sera arrivammo a litigare. Mi lamentai del suo comportamento, e lui arrivò a rispondermi:
«Non ti amo più. Amo un’altra donna e faccio l’amore con lei da mesi». Puzzava di alcool e di quell’altra donna, ed io non riuscii a ribattere, a dire un’altra sola parola.
Quella sera, piansi, e andai a dormire col bambino nella sua cameretta e il giorno dopo tornai dalla zia. Non volli più saperne niente di lui.
Però, non potendo lasciare tutte le sere mio figlio solo con la zia, cercai un altro lavoro e questa volta lo trovai in una mensa scolastica e così lo portavo con me, e tutto era risolto.
Di fronte alla scuola c’era una piccola agenzia immobiliare e mi capitava spesso di sorprendere, fermo sulla soglia, un uomo a osservarmi. Aspettava che superassi il cancello della scuola o, quando uscivo per tornare a casa, mi seguiva con lo sguardo sin quando non avevo girato l’angolo. Fui io a punzecchiarlo, una mattina che entrai nell’agenzia per chiedere se avessero appartamenti da locare.
Fu sorpreso di vedermi, poi rispose che l’agenzia si occupava solo di compravendita ma, aggiunse, se gli fosse capitata l’occasione, me lo avrebbe fatto sapere subito.
Restai a parlare ancora un po’ e, prima di andare via, chiesi:
«Hai intenzione di spiarmi ancora per molto? Ti ho visto sai come mi guardi quando entro ed esco dalla scuola».
Balbettò qualcosa, fece lo sguardo dolce, da bravo ragazzo, e m’invitò a prendere un caffè.
Quando tornammo in agenzia, mi prese la mano e mi portò in una stanzetta sul retro, e lì ci baciammo. Ma scoprii, anzi, devo essere onesta, fu proprio lui a dirmi subito che era sposato, e allora gli risposi che era meglio che si mettesse l’anima in pace, perché io non avevo nessuna intenzione di portare avanti una storia clandestina.
Il lavoro cominciava ad andare male, e mi ero anche stancata di continuare a vivere con la zia, così accettai l’invito di una mia amica che si era trasferita a Roma. Trovai casa in una borgata che per fortuna era ben servita dai mezzi pubblici, e trovai anche lavoro in un grande centro commerciale. Facevo le pulizie. Sì, lavoravo per una ditta di pulizie, Mi alzavo presto, portavo il bambino alla scuola materna e correvo al lavoro.
Mi mettevo il camice blu, quello con l’etichetta della ditta sul taschino e cominciavo a svuotare cestini, raccogliere cartacce e lavare pavimenti. Otto ore di sudore e umiliazioni. Giornate di continua preoccupazione per le voci che continuavano a rincorrersi negli spogliatoi: contratto che stava per scadere; nuove gare d’appalto; riduzione del personale. Insomma non stavo vivendo un periodo sereno.
Poi, in una fredda sera di dicembre, arrivò la telefonata di mia madre: mi diceva che papà non stava bene: aveva avuto un malore e… e chiedeva insistentemente di me. Voleva vedermi.
Assicurai mia madre che sarei partita subito e il giorno dopo ero già sul treno, diretta verso casa. Quando arrivai in paese, l’aria era così pungente da farmi rabbrividire. Coprii subito il bambino e tirare su sin sotto il mento la lampo del suo giaccone, e lo presi in braccio. Ma quell’aria frizzante mi riportò anche ai ricordi della mia infanzia spensierata, e subito sentii spuntare le lacrime agli occhi.
Sorrisi, e lasciando andare i sogni irrealizzati che avevo chiuso nel cassetto da ragazza, m’incamminai verso casa ma, superato l’unico bar del paese, mi sentii chiamare da un uomo robusto che, agitando un braccio, cercava di attrarre la mia attenzione.
«Che piacere rivederti Gianna. Se vuoi, posso accompagnarti io a casa, dai tuoi». Mi disse.
«Fa piacere anche a me rivederti e con questo freddo accetto volentieri la tua cortesia.
Era Sergio, quel ragazzo gracile e pieno di brufoli con cui avevo trascorso gli anni felici della mia adolescenza. Adesso dell’infanzia conservava solo gli occhi azzurri, i capelli a spazzola e il sorriso aperto e sincero, ma era sempre lui, cortese e bonario.
Durante il tragitto mi raccontò che in paese era cambiato poco o niente, che lui aveva preso il posto di suo padre dietro il bancone del bar e che il suo matrimonio era durato solo il tempo di mettere al mondo una bambina, poi tutto era naufragato a causa di mille incomprensioni e mille litigi.
Mio padre per fortuna si riprese e, anche se si lamentava di non poter più andare in campagna, era guarito e si occupava dell’orto, delle galline e cominciava a fare piccoli lavoretti.
La sera prima di tornare a Roma, quando stavo quasi per andare a letto, mi sentii chiamare dalla strada. Mi affacciai, ed era Sergio che chiedeva di potermi parlare. Lasciai il bambino a mia madre e, indossato il cappotto, lo raggiunsi in strada.
Ci sedemmo sul muretto e incrociammo i piedi, come facevamo da bambini. Ma era una notte fredda e istintivamente portai le mani al petto.
«Mettiamoci in macchina. Qui si gela». Suggerì Sergio, e dicendo così mi prese tra le sue braccia e mi adagiò per terra.
«Perché non resti qui?» E quella frase mi colse di sorpresa e mi colpì. Mi sentii quasi mancare. Tutte le mie certezze stavano vacillando. Ero confusa.
«Non posso, e poi lo sai anche tu che il paese mi è sempre andato stretto. Ormai vivo a Roma. Ho il mio lavoro, la mia casa. Non voglio stravolgere l’esistenza di mio figlio, e nemmeno la mia». Aggiunsi.
«Ho chiesto di te a tua madre, e ho saputo che con il tuo solo stipendio non te la passi troppo bene. Qui in paese non ti mancherebbe niente. Ho rinnovato il bar, la sera facciamo le pizze e d’estate mettiamo fuori i tavolini. Perché non puoi? Perché non rimani? Cosa t’impedisce di vivere una vita serena qui, con me? Lo sai, io ti ho sempre voluto bene, anche se non mi hai mai degnato di uno sguardo.
Quando tornai a casa, nella mia vecchia stanza, ero ancora più confusa di prima, ma anche delusa, sia di me sia di Sergio. Come poteva pensare che tornassi a vivere in un piccolo paese, dopo essermi sistemata nella Capitale?
Il giorno dopo, salutati i miei genitori, tenendo con una mano il trolley e con l’altra stringendo la manina di mio figlio, mi avviai per andare a prendere la corriera. E fu allora, su quella strada percorsa tante volte da ragazza, che guardando mio figlio, misi a fuoco quello che desideravo, quello di cui avevo veramente bisogno. Dell’importanza della sua serenità e del suo avvenire.
Giunta in piazza, mi fermai davanti al bar e chiesi di Sergio.
«Sei venuta a salutarmi? Allora hai proprio deciso. Stai partendo». E il suo sorriso si trasformò in una smorfia amara.
Sorrisi, preso in braccio il piccolo, feci quasi per allontanarmi e poi risposi:
«Sai, questa notte ho riflettuto molto, e sono giunta alla conclusione che forse avevi ragione tu. Per inseguire la felicità, che del resto non ho ancora trovato, forse non serve continuare a rincorrerla. Sembrerà strano, ma a volte credo che per raggiungerla basti fermarsi e aspettare».
Ci guardammo negli occhi, e mentre la corriera partiva senza di me, Sergio prese la mia valigia e si incamminò verso il bar.
Stavo iniziando una nuova avventura, questa volta con Sergio, e non lo facevo solo per me, ma per mio figlio. E forse anche per Sergio e il mio paese, che in definitiva non avevo mai dimenticato, né lasciato definitivamente.



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