Successe tutto quando avevo diciassette anni e lei ventotto. Io facile all’innamoramento, tanto che a scuola mi prendevo una cotta per ogni nuova compagna di classe, e lei così seria e la testa sulle spalle.
Quell’anno ero arrivato finalmente alla fine e mi aspettavano solo gli esami di maturità, così mia madre, per non correre rischi, pensò che sarebbe stato utile farmi aiutare nelle materie in cui non andavo troppo bene.
Non andavo malissimo al liceo, non avevo voti così bassi da dovermi preoccupare, ma essendo sempre arrivato alla promozione per il rotto della cuffia, mia madre quell’anno decise di farmi aiutare da qualcuno che sapesse chiarirmi bene il programma di studio.
Io cercai di farle cambiare idea, di spiegarle che non ne avevo bisogno, che ce l’avrei fatta anche da solo, ma rispose che io non ero come mio fratello che si era diplomato con il massimo dei voti e ora si stava laureando in economia aziendale all’università di Siena.
«Tu vivi ancora con la testa tra le nuvole e hai bisogno di qualcuno che ti segua sino al diploma. Poi, all’università sarà tutta un’altra cosa, potrai gestire da solo il tuo piano di studi, ma alla maturità è necessario che ci arrivi preparato».
Vero! Mio fratello è sempre stato un secchione e si stava per laureare, ma mia madre esagerava se pensava che da solo non sarei riuscito a superare gli esami di Stato.
«Io zoppico solo in qualche materia: italiano e matematica, ma sono sicuro di farcela anche da solo». Le ripetevo. Ma lei non ne volle sapere e mi presentò Marcella: insegnante d’italiano e figlia di una sua cara amica.
Io cercai di dimostrarmi bendisposto, feci buon viso a cattivo gioco e così ebbe inizio la commedia, perché in realtà mi rompeva dover trascorrere due pomeriggi alla settimana a casa di quella professoressa che pretendeva l’impossibile.
Comunque Marcella con me è sempre stata garbata e paziente. Sorrideva e non si arrabbiava mai, nemmeno quando mi trovava a scrutare il soffitto o a scarabocchiare ghirigori sul tavolo. Si avvicinava, puntava l’indice sulla pagina del libro, indicava il passo che dovevo ripassare a memoria e diceva:
«Michele, è su questo che devi concentrarti, non sul lampadario. Forza, non perdiamo tempo». E io tornavo con lo sguardo sui libri, anche se la mente continuava a vagare altrove. E non passò molto tempo che mi ritrovai ad aspettare con impazienza il martedì e il giovedì pomeriggio per andare a casa sua.
Citofonavo, lei faceva scattare la serratura del portone e quando uscivo dall’ascensore era lì sulla porta che mi accoglieva con un sorriso. E così, piano piano, cominciai a non vedere più davanti a me l’insegnante, ma un’altra donna. Era bella, attraente, affascinante e sarei rimasto con lei per ore.
Cominciai ad avere anche più cura di me, a farmi sempre la doccia e la barba prima di andare da lei. E non era trascorso nemmeno un mese che mi ritrovai innamorato cotto e stracotto. Ma, paradossalmente, invece di migliorare, al primo trimestre i miei voti si rivelarono i peggiori di sempre.
Mia madre parlò con Marcella e concordarono che invece di andare a ripetizione due volte la settimana, sarei andato quattro volte, e io ne fui felice.
«Michele, dimmelo sinceramente, ritieni sia colpa mia? Sono io che non riesco a spiegarti le cose?» Chiese dubbiosa, il giorno che tornai da lei. Ma io scrollai il capo e le risposi di no.
Trovai mille scuse. Le dissi che mi stavo impegnando, ma in realtà il mio chiodo fisso non era lo studio, mia madre o il desiderio di eguagliare mio fratello, la mia preoccupazione e il mio chiodo fisso era lei, Marcella.
In sua presenza cercavo di comportarmi normalmente, di non darle a vedere il mio stato d’animo, ma quando un giorno, per puro caso, mi capitò di ascoltare una sua telefonata, mi sì gelò il sangue. Marcella parlava con una sua amica e le stava dicendo che la lista nozze era già pronta, mentre quella degli invitati era così lunga che doveva essere rivista.
Lo sapevo che era fidanzata. Spesso la sentivo parlare al telefono con il suo ragazzo, qualche volta era venuto a casa sua mentre io ero presente. E, d’altronde, come poteva essere diversamente. Aveva ventott’anni, era una bella donna, amava il suo ragazzo e al dito portava orgogliosamente l’anello di fidanzamento.
Tutto questo lo sapevo, ma quando terminò la telefonata, a bruciapelo e mordendomi le labbra subito dopo, chiesi:
«Ti stai per sposare?» E nello spazio che trascorse tra la mia domanda e la sua risposta, stupidamente sperai che mi rispondesse di no. Che non fosse lei a doversi sposare ma… che so? Sua sorella, una sua cugina, un’amica.
«Sì, la primavera prossima». Rispose, senza dare peso alla domanda.
Sentii una fitta al cuore, ma cercai di non darlo a vedere. Non volevo che sospettasse o capisse che mi ero innamorato di lei. Mi feci forza e, pescando non so dove un abbozzo di sorriso, le feci gli auguri e promisi che sarei andato a vederla in chiesa.
Da quel giorno cercai di concentrarmi solo nello studio, migliorare nelle materie in cui andavo male, ma tutto si rivelò inutile; non faci nessun progresso e quando ai colloqui lo venne a sapere mia madre, preoccupata sentenziò:
«O t’impegni, o è inutile che continui ad andare da Marcella. Forse sarà meglio trovare qualche altra soluzione. Magari un professore più preparato, più esperto…»
«Marcella non centra nulla. La colpa è solo mia, ma ti prometto che farò di tutto per recuperare». Le risposi.
Dopo le minacce di mia madre mi misi a studiare seriamente e tutto cambiò. Ma lo facevo solo per continuare a frequentare Marcella, per trascorrere quelle due ore a casa sua, e solo perché avevo ormai preso la testa per lei.
«Sei sempre decisa a sposarti?» Le chiesi un giorno, dopo aver ascoltato un’altra sua telefonata.
«Sì, certo, tra quattro mesi, ma perché questa domanda?» E mi guardò stupita.
Lo sapevo, me lo aveva già detto, ma provai lo stesso una fitta al cuore. Così, prendendola alla larga, cercai di portare il discorso su ciò che mi premeva e le chiesi cosa ne pensasse delle coppie con la donna più grande dell’uomo, magari di dieci anni e oltre.
Dapprima, forse non capendo che mi riferivo proprio a noi, o forse non volendo sondare, aggrottò la fronte e rispose:
«Non so che dirti… E poi dipende da quanti anni dovrebbe avere lui. Naturalmente non dovrebbe essere un ragazzino che ha ancora bisogno della madre».
Io avevo diciassette anni e lei vent’otto, e mi chiesi se la risposta fosse diretta proprio a me, se mi vedesse ancora come un ragazzino, e glielo chiesi.
«No, non pensavo a te. Il mio era un discorso astratto, basato su quello che si sente in tv: l’insegnante quarantenne che s’invaghisce dell’allievo, una signora che s’innamora dell’amico del figlio… pensavo a questo, non ad altro». Rispose, ma intanto sul suo volto comparve un lieve imbarazzo.
Nascosi le mani sotto le ascelle, piegai la testa sino a toccare il libro aperto sul tavolo e rivelai il mio sentimento. Le dissi che non potevo farci niente, ma che nei suoi confronti provavo un forte sentimento, che pensavo sempre a lei, che ero sicuro di essermi innamorato di lei. Le dissi proprio così, che mi ero innamorato di lei, e aggiunsi che la notte la sognavo e speravo che anche lei si innamorasse di me.
Non rise, non mi prese in giro, non mi mandò al diavolo. Mi venne vicino, mi accarezzò i capelli e mi parlò con dolcezza.
Mi raccontò che era successo anche a lei: alle superiori si era innamorata di un suo professore, ma le era passata nel volgere di una stagione e mi assicurò che l’amore vero è tutto un’altra cosa. Aggiunse che lei e il suo fidanzato si amavano sin dal primo giorno che si erano incontrati, che condividevano gli stessi interessi, e aggiunse che c’era un’altra cosa importante e da non sottovalutare: entrambi avevano un lavoro sicuro, e questo, assicurò, era un punto fermo, perché avrebbe dato la tranquillità economica e contribuito alla loro felicità.
L’ascoltavo in silenzio. Ero turbato dalle sue parole, ma intanto capivo solo una cosa: che l’amavo, che la desideravo, che avrei voluto fare l’amore con lei, che avrei voluto averla solo per me e non mi importava niente della differenza d’età. Non lo ritenevo importante, non ci pensavo.
Dopo quella mia assurda dichiarazione non ne parlammo più. Continuai a frequentare casa sua ma mi concentrai solo nello studio e alla fine riuscii a superare brillantemente la maturità.
Tornai a trovarla solo per ringraziarla e per dirle della promozione, poi, preparato lo zainetto, partii con gli amici per la Grecia. Quando tornai, salutai genitori e amici e raggiunsi mio fratello a Siena.
La lontananza, lo studio, le nuove amicizie, le nuove avventure: amori estivi, amori invernali, l’aver avuto qualche storiella senza valore e qualcun’altra più seria, mi aiutò a farmi dimenticare Marcella. Ma forse sarebbe più corretto dire che mi ero solo rassegnato.
Intanto gli anni si susseguivano e, dopo essermi laureato in ingegneria gestionale ed essermi di nuovo ritrovato single, e questo forse perché non avevo ancora trovato nessuna donna che mi avesse fatto girare veramente la testa come Marcella, tornai nella mia città.
La rividi dopo anni, quando io ne avevo ventinove e lei quaranta, ci incontrammo per caso in una galleria d’arte, alla presentazione delle opere di un artista che, secondo me, se avesse fatto un altro mestiere nessuno lo avrebbe rimpianto.
Io la individuai subito, se era in compagnia di una sua amica, non saprei dirlo. Ricordo che con lei c’era qualcuno ma, attento a guardare solo lei, non feci caso a nessun’altro.
Guardandola ebbi la sensazione che il tempo si fosse dimenticato di lei; che non le avesse tolto nulla della bellezza e del fascino di un tempo. Era rimasta identica e bellissima, come la ricordavo. Mi avvicinai e la salutai.
«Ciao Marcella, che piacere rivederti».
Lei stentò a riconoscermi: non ero più l’adolescente che un tempo andava a casa sua a studiare. Ormai ero un uomo fatto, mi ero lasciato crescere la barba e mi ero anche irrobustito. E allora mi presentai.
«Sono Michele, il ragazzo che veniva a casa tua a studiare? Ero all’ultimo anno delle superiori e tu mi davi ripetizioni d’italiano e matematica. Ricordi?»
«Michele… ma sei proprio tu? Sì, ricordo, ma come sei cambiato, ora sei diventato un uomo». Mi rispose, e mi sembrò che fosse contenta di vedermi.
«Tu invece sei rimasta sempre uguale, identica». E rimasi a guardarla estasiato come un tempo, come dodici anni prima.
La invitai a prendere qualcosa al bar e, dopo i soliti convenevoli, curiosa di sapere come avessi trascorso il tempo lontano da casa, le raccontai di me.
Le dissi che dopo il diploma avevo raggiunto mio fratello a Siena, che ero riuscito a laurearmi senza problemi, che da qualche anno ero tornato nella nostra città e che finalmente avevo trovato un buon impiego.
«E tu invece? Con il tuo… Fabio, che mi racconti di bello?» Chiesi.
Si adombrò e per qualche interminabile secondo non rispose, sembrava stesse cercando le parole giuste poi, schiarendosi la voce, ma con fatica, mi parlò del suo matrimonio fallito miseramente a causa delle troppe incomprensioni e i continui litigi che erano sempre più frequenti.
Con suo marito non aveva funzionato e dopo quattro anni si erano separati. Mi raccontò di essere stata malissimo, perché non avrebbe mai immaginato che potesse capitare anche a lei. Poi, dopo un interminabile silenzio, aggiunse che adesso stava solo tentando di riprendere in mano la sua vita e recuperare la serenità perduta.
Ci sono momenti in cui la vita ti regala attimi inattesi. Smetti di fare una cosa e ti accorgi di essere felice. Tutto risulta naturale, o semplicemente è la conferma d’un affetto tenuto nascosto, di un sentimento segreto, custodito in silenzio dentro di noi con pudore. O può essere anche la fine di qualcosa, la fine di un periodo difficile e sempre più faticoso da sopportare.
La lasciai parlare, ascoltai le sue parole senza mai interromperla, in pratica la lasciai sfogare e capii che aveva sofferto molto, ma capii anche che non avevo mai smesso d’amarla.
«E ora?» Le chiesi.
«Ora cerco solo la serenità. Ho il mio lavoro, le mie amicizie, il solito tran tran, ma non mi basta. Ho bisogno di recuperare il tempo perduto».
«Allora posso invitarti a cena questa sera? Naturalmente se non hai altri impegni o qualcuno che ti aspetta?»
«Non ho nessun impegno e non mi aspetta nessuno. Te l’ho detto, sono sola, e ogni giorno che passa mi sembra di inoltrarmi sempre più in un ginepraio inestricabile e senza via d’uscita.
Non so come sia successo, ma con naturalezza le presi la mano e ci avviammo verso l’uscita. Dopo il ristorante facemmo una lunga passeggiata. Nessuno di noi voleva far finire la serata, quella notte. Poi la riaccompagnai a casa e, prima di separarci, concordammo di rivederci presto.
Da quel giorno cominciammo a frequentarci e ora sono quattro anni che stiamo insieme. Abbiamo messo su casa e l’unico rammarico che abbiamo sono gli anni sprecati per paura della nostra differenza d’età.
“È impossibile rinunciare alla felicità, si può solo se non la si è mai conosciuta”. Ha scritto qualcuno, ed io penso che sia vero e ci credo.