L’artista marziale ci parla delle discipline orientali interne, il loro principio e gli effetti benefici sulla salute psico-fisica
Angelo Leo e sua figlia Luciana. Ho voluto incontrarli personalmente affascinato da una loro pubblica esibizione sulle arti marziali “interne”: il Taj ji Quan. Si è voluto mettere da parte la tecnica giornalistica dell’intervista a favore di un’osservazione diretta, contravvenendo ad un’altra regola aurea del giornalismo che “deve parlare per terza persona”: vi sarebbe stato il rischio di un freddo botta e risposta mettendo in soggezione chi non vuole apparire, né competere e neanche darsi un tono pretendendo di essere depositari assoluti dell’arte marziale interna.
Un semplice colloquio amichevole col maestro Leo credo basti. Entrare nel Dojo dove padre e figlia sembrano “mettere in scena” una misteriosa danza orientale è stato un privilegio personale che mi ha permesso di capire il senso delle “discipline marziali interne” e di mettere fine ai luoghi comuni sulle arti marziali in genere.
Infatti l’errore principale che si compie, nel parlare di “arti marziali” è quello di considerare prevalentemente l’aspetto muscolare legato allo scontro e alla forza estrinseca. Un’immagine distorta sicuramente dai film e dalle ultime mode americane (si pensi alle MMA – mixed martial arts – dove ci si picchia selvaggiamente senza uno scopo) dove si privilegia la competizione agonistica.
Il Taj Ji è la madre delle arti marziali. E’ una disciplina interna perché comporta un lavoro introspettivo molto “certosino” dove ogni movimento è legato alla liberazione delle energie naturali. Non è energia che colpisce un avversario, non ha la pretesa di rompere denti e ossa, non ha scopo di autodifesa bensì quello di ricercare prima di tutto un controllo perfetto sulla mente, per controllare meglio il corpo. Anzi, per dirla come il maestro Leo «è una sorta di non azione per evitare la reazione».
Certamente la disciplina è poi legata al Kung Fu, una variante più dinamica del Taj ji. Ma le arti maziali interne hanno l’obiettivo principale di cogliere il “movimento interno”, naturale, attraverso quelle che vengono definite “forme” che ricordano i gesti degli animali (si pensi alla mantide, ad esempio) in grado di muoversi incondizionatamente con movimenti istintivi, per necessità e senza schemi prefissati (a differenza delle altre arti marziali “esterne”, dove si impara solo la tecnica seguendo uno schema prefissato). Quindi è una dimensione filosofica – comunque non necessariamente contraria, ma complementare – alla meccanica dei gesti marziali che si imparano attraverso un allenamento semplicemente “muscolare”. Il Taj ji va oltre, segue una strada inversa.
Basta guardare Angelo Leo e figlia: i loro corpi che magicamente diventano un’alchimia tra cielo e terra. Meglio: una congiunzione tra questi elementi. Prendere energia dalle radici, darle forma coi movimenti e raggiungere l’armonia con il cielo. Un’arte della sinuosità che non si ferma alla semplice apparenza coreografica, ma si rivela in un paradossale mistero dell’equilibrio e dell’armonia.
Ovviamente per avvicinarsi al Tai Chi Chuan occorre mettere da parte la parola “comprensione” che può assumere un significato logico-razionale (perché le tecniche non partono dal presupposto che debbano essere comprese in gesti meccanici), perché più si procede nell’apprendimento, e più risulta evidente come le nozioni acquisite razionalmente debbano essere lasciate sedimentare dentro di noi, per poi far posto progressivamente a sensazioni e a percezioni di altra natura, che si fondano sulla nostra sensibilità intuitiva e non sulla nostra ragione.
Come si è detto, il Tai Chi Chuan non è sport da combattimento, bensì arte per promuovere la vita: un modo per conoscere profondamente se stessi e gli altri e per imparare a rispettare la vita di tutte le cose. Il Tai Chi Chuan è amore per la bellezza interiore: insegna a vincere senza combattere, a cedere senza subire, lasciando passare l'aggressività che troppo spesso fingiamo di non avere.