"Ho combattuto contro la dominazione bianca e contro quella nera. Ho accarezzato l’ideale di una società democratica e libera in cui tutte le persone vivono insieme in armonia e pari opportunità. E' un’ideale che spero di vivere e di realizzare. Ma se sarà necessario, è un’ideale per cui sono disposto a morire".
Mi sono sempre chiesto che cosa fa di un uomo un Uomo. Forse il potere economico, o forse l’acume politico, o forse l’attrazione mediatica? Molto più semplicemente ciò che fa di un uomo un’icona senza tempo è la forza delle sue idee. È sempre stato così nella storia millenaria della civiltà che ha visto uomini, e donne, incidere sulle coscienze rivoluzionando il cammino dell’umanità. È stato così per Socrate e Platone, per Cornelia e per Marco Porzio Catone, per Ildegarda di Birgen e per Giordano Bruno, per Francesco e Chiara, per Voltaire ed Oscar Wilde, fino ai giorni nostri per Gandhi, per Martin Luther King e Madre Teresa di Calcutta. Nel Pantheon di diritto è entrato non da oggi Nelson Mandela. Ciò che più mi ha colpito, ma non sorpreso, durante la cerimonia ufficiale di commemorazione e saluto rivoltogli dai grandi della terra è stata l’assenza del sentimento doloroso che accompagna gli eventi luttuosi. E non potrebbe essere diversamente perché Madibà non è morto, rimane con noi insieme al suo esempio, alle sue azioni, alla sua vita ed alla sua lotta dedicata non solo alla sua gente ma a tutti gli uomini e le donne che, nel mondo, subiscono l’ingiuria quotidiana della diversità e dell’emarginazione. Non solo quella troppo spesso enfatizzata a sproposito della diversità di genere, ma quella più crudele ed aberrante, per una civiltà che si definisce progredita e civile, che lascia morire di fame milioni di uomini, donne e bambini che hanno la sola colpa di essere nati ad una latitudine sbagliata. Dei milioni di uomini e donne che devono pagare un tributo assurdo al fatto di avere la pelle di un colore diverso rispetto ai visi pallidi che si credono i padroni del mondo, razza brutale che ha distrutto civiltà millenarie per un patologico complesso di superiorità che non ha riscontri nella biologia e nella fisiologia del genere umano. Mandela nato nel 1918 a Mvezo, villaggio di una delle regioni più povere del Capo, ha attraversato un intero secolo di progresso certo ma intriso di odi interetnici, di barbarie sociale, di sofisticate violenze fisiche e psicologiche a carico di intere comunità, vissuti sulla pelle con una carcerazione tanto lunga quanto ingiusta. Ma i 26 anni di reclusione, voluta da un apparato statale criminale che aveva fatto della segregazione razziale la sua religione, invece che fiaccare la combattività e la determinazione di Nelson l’hanno rafforzata oltre misura, facendo diventare planetaria la sua risonanza. Dal giorno della sua liberazione nel 1990 ha dimostrato una capacità di perdonare che lo ha portato a battersi per riconciliare il Paese con il suo doloroso passato, lottando per il riconoscimento e la dignità della maggioranza nera ma rassicurando allo stesso tempo i bianchi a non avere paura del cambiamento ma anzi a rimanere e investire in patria. Un "lungo cammino verso la libertà" che vide nel 1994, per la prima volta, tutto il Sudafrica recarsi a votare, con l’elezione del primo presidente nero nella storia del Paese. Il resto è storia recente che conosciamo bene. Dell’immenso patrimonio morale e sociale che ha lasciato al mondo mi piace ricordare una sua frase che sintetizza molto del suo lungimirante pensiero “Essere liberi non significa semplicemente rompere le catene ma vivere in modo tale da rispettare e accentuare la libertà altrui”. Arrivederci Madibà e grazie ancora per averci fatto dono della tua vita.