In Italia parecchi bambini soffrono di cardiopatie congenite: malformazioni del cuore che possono compromettere seriamente la loro vita. In alcuni casi una pillola ‘salvavita’ può essere preziosa. L’A.B.C di Ester, Associazione Bambini Cardiopatici, offre un valido contributo per questi piccoli malati: basta poco per il prossimo traguardo
Ogni distacco dalle persone che amiamo è sempre doloroso, ma quando si spezza la vita di un bambino il dolore non basta, si trasforma in disperazione, in angoscia creando un vuoto che nessuno potrà colmare: nessuna spiegazione, nessun perché potranno mai rendere giustizia alla rottura, sul nascere, di una piccola vita che avrebbe solo donato un po’ di amore in più al mondo. Intere famiglie si distruggono, intere esistenze si abbandonano nel nulla fino a consumarsi lentamente nei ricordi, ormai arme a doppio taglio. Non è facile in queste situazioni, ma la grandezza di un uomo sta nella capacità di rialzarsi dopo momenti di difficoltà e la storia di Maria Palmitessa, presidente dell’Associazione Bambini Cardiopatici, A.B.C di Ester, e suo marito Antonio Papapietro, è la dimostrazione diretta di come la vita possa andare avanti anche dopo un dolore così profondo. “Ester era una bambina piena di vita”, affermano i suoi genitori e non posso che confermarlo, perché quella voglia di vivere c’è ancora, anzi, aumenta grazie all’aiuto che la sua mamma e il suo papà offrono ad altri bambini come lei. Un cammino di speranza costituitosi nel 2007, destinato a progredire, nonostante la burocrazia non stenti a seminare i suoi ostacoli, e che tra poco riuscirà a raggiungere un’altra tappa importante: la donazione di un elettrocardiografo pediatrico, una nuova apparecchiatura che potrà aiutare altri bambini e così dietro il loro sorriso rivivrà per sempre la piccola Ester.
Sign.ra Palmitessa, di cosa si occupa la vostra associazione?
«La nostra Associazione si propone di assistere le famiglie con bambini cardiopatici e purtroppo l’idea di fondarla nasce dopo un’esperienza vissuta in prima persona a proposito di queste patologie, dal momento che qualche anno fa mia figlia, affetta da una grave forma di cardiopatia, non ce l’ha fatta. Dopo la perdita della mia bambina io e mio marito eravamo troppo scossi dal dolore, ma passato un po’ di tempo, grazie anche al sostegno di qualche dottore, abbiamo deciso di dedicarci a questa associazione dandole il nome di nostra figlia: Ester».
Nonostante tutto il dolore che un genitore può provare per la perdita di un figlio, un vuoto che comunque non si supera mai, siete riusciti a fondare questa associazione: questo vi rende onore ed è degno di ammirazione.
«Sì, vogliamo che Ester continui a vivere ancora, attraverso l’aiuto che possiamo dedicare ad altri bimbi come lei. A mia figlia è stata subito diagnosticata la malattia, infatti a 8 mesi ebbe la prima crisi cianotica, perché l’aorta che avrebbe dovuto trasportare il sangue ossigenato a tutte le altre parti del corpo, si chiuse completamente costringendola a subire un intervento grazie al quale le fu impiantato uno shunt: un tubicino che permette una comunicazione diretta tra due canali separati di uno stesso apparato e che nel caso di mia figlia avrebbe permesso l’ossigenazione del sangue. Dopo averla rimessa dall’ospedale la portammo a casa, effettuavamo periodicamente tutti i controlli necessari, fino a quando all’età di ventuno mesi le cose si complicarono e i medici dovettero operarla di nuovo: l’intervento riuscì perfettamente, anche se poi la parte sana del cuore, ormai troppo affaticata, non riuscì più a ripartire. Prima dell’intervento, però, scoprimmo che lo shunt si era ostruito già da 5-6 mesi, perciò era già un miracolo che la bambina fosse arrivata fino a quel momento. Mia figlia, avendo lo shunt otturato, avrebbe dovuto essere deperita, con segni evidenti di cianosi, priva di forze, eppure era bellissima: aveva trovato un altro modo per ossigenare il sangue. L’unico rimpianto del professore che operò la mia bambina, fu quello di averci rassicurati prima dell’intervento, perché Ester era forte e piena di vita».
Sono parecchi i bambini affetti da cardiopatia congenita?
«Purtroppo sì, ce ne sono parecchi. Per fortuna non si tratta sempre di patologie molto gravi, perché si va da un piccolo soffio al cuore a malattie più complesse. Le cure sono proporzionali alla gravità della patologia, in alcuni casi chi è affetto da cardiopatia è costretto a prendere per sempre delle pillole salvavita, senza le quali non potrebbe vivere, in altri c’è bisogno anche di intervenire in maniera chirurgica e in base alla mia esperienza, posso dire che qui al Sud ci sono parecchie eccellenze in questo campo. I medici sanno prima di tutto essere delle ‘persone’ e assistono continuamente i bambini assieme alle loro famiglie».
Grazie al vostro impegno siete riusciti a donare delle importanti apparecchiature mediche che attualmente sono utilizzate nel nostro reparto di pediatria e che possono fare la differenza per i bambini cardiopatici.
«Sì, grazie al sostegno di altre associazioni di volontariato e al contributo di tutta la cittadinanza siamo riusciti a portare a termine alcuni obiettivi che ci eravamo prefissati e il primo di questi è stato la donazione di un ecografo al reparto pediatrico dell’ospedale di Martina, dove viene attualmente utilizzato. Si tratta di uno strumento che permette di evidenziare se ci sono delle patologie, dalle più semplici alle più complesse e nelle ipotesi peggiori, permette ai medici di indirizzare le famiglie verso centri specializzati per la cura di queste malattie. Devo dire che all’inizio abbiamo faticato per farci conoscere e c’era un po’ di scetticismo nei nostri confronti, il che è anche comprensibile, però poi col passare del tempo grazie al nostro intervento e alla nostra storia, la gente ha potuto constatare dal vivo il nostro operato e ci ha dato fiducia, offrendoci un grande contributo. Oltre ai numerosi salvadanai che abbiamo sparso per tutta la città, ci sono state altre importanti iniziative che ci hanno sostenuto: alcune famiglie in occasione delle comunione o della cresima dei propri figli, hanno preferito rinunciare alla bomboniera devolvendo quei soldi per l’associazione e questo è un gesto che noi abbiamo apprezzato molto. Sempre durante quel periodo, a pochi mesi dalla nascita della fondazione, c’è stata anche la vincita di 540 mila euro presso la nostra ricevitoria e la persona che ha vinto quella somma ci ha donato 5 mila euro, una cifra sostanziale che ci ha permesso di acquistare l’ecografo, pagato 9 mila euro. Abbiamo sempre pubblicato ogni piccolo passo in avanti fatto, perché era un modo per ringraziare tutte le persone che avevano contribuito a realizzare i nostri piccoli progetti con le loro donazioni e sapere che quello strumento potesse aiutare dei bambini, era una sensazione bellissima: tutto ciò che ormai non potevamo fare più per nostra figlia, in questo modo lo facevamo per altri bambini. Col passare del tempo abbiamo portato a compimento altri progetti, tra cui la donazione di quattro televisori LCD per allietare il soggiorno dei bambini nel reparto di pediatria di Martina e poi successivamente siamo riusciti a comprare un pulsiossimetro, un’apparecchiatura medica che permette di misurare la quantità di emoglobina legata nel sangue in maniera non invasiva, e alcuni pannelli raffiguranti dei personaggi Walt Disney. Tutto questo siamo riusciti a concretizzarlo grazie alla collaborazione della compagnia teatrale Retropalco che ha inscenato alcune commedie. A breve realizzeremo un altro progetto che riguarda l’acquisizione di un elettrocardiografo pediatrico, poiché attualmente viene utilizzato solo quello per adulti».
Oltre a queste fondamentali donazioni, vi siete anche battuti a lungo contro la chiusura di alcuni reparti pediatrici: ce l’avete fatta anche questa volta?
«Ci siamo battuti a lungo sia contro la chiusura del reparto di pediatria a Martina che per la riapertura della sezione di cardiochirurgia pediatrica del Giovanni XXIII a Bari: questo reparto è stato sospeso per tre anni, costringendo numerose famiglie ad affrontare i cosiddetti ‘viaggi della speranza’ verso altre strutture più lontane, lasciando a casa una realtà amara, perché in alcuni casi si trascurano gli altri figli e a volte si è costretti ad allontanarsi anche dal lavoro. In più tra l’ansia e la preoccupazione, le visite e le terapie, bisogna trovarsi anche un alloggio. Per tutti questi motivi, assieme ad altre due associazioni: ‘Sara’ e ‘Progetto Uomo’, rispettivamente di Copertino e Bisceglie, abbiamo dato il via a una vera e propria battaglia, tramite una ferrea raccolta firme. Dopo alcuni mesi di duro lavoro ci recammo a Bari con le firme e la necessaria documentazione, lì ci accolse il Prof. Dattoli, allora dirigente generale del Policlinico di Bari, che fece da ponte diretto con il Presidente della Regione Vendola, così da lì a qualche mese il reparto venne riaperto e adesso è attivo e funziona meravigliosamente».
Dietro ogni traguardo raggiunto c’è sempre tanta fatica e tenacia, ma vi siete mai sentiti ostacolati nella realizzazione di qualche progetto?
«Purtroppo sì e le difficoltà maggiori le abbiamo avute a proposito della nostra sede. Il problema della sede non è del tutto indifferente, perché non avendone una è come se ci fosse posto un freno, senza il quale potremmo lavorare molto di più. Ne parlo con tanta amarezza, ma la questione relativa allo nostra sede è lunga e complessa, questo perché un po’ di tempo fa, io e mio marito eravamo tutori di una proprietà sequestrata alla mafia, lì dove pensammo di dar vita e luogo alla nostra associazione. Per evitare il rischio di incorrere in qualche vicissitudine giudiziaria e preferendo fare le cose a norma di legge senza stanziarci autonomamente come associazione, decidemmo di rinunciare al titolo di tutori di quella proprietà, donandola al Comune, in modo tale che ce la concedesse come sede per la nostra associazione regolarizzando tutto l’iter burocratico. Da parte del Comune fu mostrato sin da subito grande entusiasmo per la nostra iniziativa, anche perché ci rendevamo disponibili a ristrutturare la struttura a nostre spese. Il nostro sogno non era solo quello di creare una sede per la nostra associazione, ma avremmo voluto creare un centro sperimentale post-operatorio pediatrico che sarebbe stato il primo in Italia e avrebbe portato il nome di nostra figlia; naturalmente si trattava di un progetto molto ambizioso, ma l’avremmo realizzato grazie alla collaborazione dell’equipe di cardiochirurgia di Bari e ad altri medici specialisti. Tra l’altro questa struttura è situata accanto al villaggio turistico di San Paolo, perciò in un clima sereno e pulito, ideale per la riabilitazione dei bambini cardiopatici. In cinque anni di amministrazione di Destra, non si è fatto nulla per portare a termine le procedure e realizzare il nostro progetto, adesso invece, con la nuova giunta comunale nel giro di pochissimo tempo si è riusciti a cambiare la destinazione della struttura e a ottenere anche i finanziamenti per ristrutturarla: in questo modo quel locale, situato a San Paolo e che noi stessi abbiamo dato al Comune, andrà a un’altra associazione per i bambini minori a rischio».
Dopo tutto questo tempo passato tra attese, procedure e speranze, qual è il vostro più grande rammarico?
«Noi siamo assolutamente contenti nel sapere che la struttura verrà utilizzata comunque a scopi benefici e per i bambini, ma ciò che ci lascia perplessi è la totale indifferenza nei nostri confronti, dal momento che nessuno ci ha interpellato in merito al cambio della destinazione. C’è stato qualcuno in particolare che all’epoca dei fatti sembrava davvero credere in noi, battendosi per la nostra causa e prodigandosi per la realizzazione del nostro progetto, ma adesso anche questa persona si è completamente dimenticata di noi e ci ha voltato le spalle, per non parlare di quanto sia sconcertante vedere una differenza sbalorditiva tra una nuova amministrazione che nel giro di un mese è riuscita a concludere tutto l’iter burocratico e a cambiare la destinazione della proprietà e una vecchia giunta che in cinque anni non è riuscita a fare nulla di concreto per noi. Ci sentiamo demoralizzati e abbattuti, con un progetto che non si potrà più realizzare e tanta rabbia dentro».
Malgrado l’ambiguità delle istituzioni e della burocrazia, la gente vi manifesta stima e fiducia, grazie alle quali siete riusciti a realizzare grandi obiettivi: c’è stato un momento davvero importante per la vostra associazione?
«Il riconoscimento più bello per la nostra Associazione è arrivato tre anni fa, quando abbiamo ricevuto il ‘Premio Ambasciatori d’Amore’, un riconoscimento volto a premiare l’associazione che si è più distinta nel corso dell’anno. Noi abbiamo ricevuto il premio nella sua prima edizione e da allora siamo stati gli unici martinesi che l’abbiano conseguito: è stata una bella soddisfazione, anche perché non ce l’aspettavamo, perciò è stata una grande sorpresa».
Dietro ogni storia di sofferenza e malattia, non c’è solo l’individuo, ma anche la famiglia e le persone che lo amano: l’A.B.C di Ester cerca di assistere anche le famiglie dei bambini malati?
«Noi non facciamo assistenza alle famiglie, ma è come se la facessimo indirettamente, perché molto spesso i genitori e i parenti dei bambini affetti da queste malattie, hanno bisogno di sfogarsi e vengono da noi per un sostegno, un supporto, un consiglio: in questi casi ascoltare è fondamentale. Mi rammarica che purtroppo, conoscendo molte realtà di questo tipo, abbia constatato che qui a Martina non c’è una mentalità molto aperta e in alcuni casi avere un figlio malato costituisce ancora un tabù. Alcune persone nascondono i propri figli in casa, altre non vogliono assolutamente che qualcuno venga a sapere della loro malattia ed evitano in tutti i modi di parlarne, certe mamme quando vengono a sapere che il bambino è malato, lo lasciano in ospedale. Si tratta di situazioni difficili e complicate, ma non si può arrivare a tanto: sono sempre bambini, sangue del nostro sangue e hanno bisogno solo del nostro amore».