Dagli esordi nel gruppo universitario fascista al rapporto conflittuale con Berlinguer, storia di un politico che ha compiuto il suo percorso all’interno del PCI pur mantenendosi sempre “a destra”
Da questa settimana, e a cadenza periodica, comincia una serie di ritratti firmati dall’autore di “Eutanasia di una istituzione italiana - Rinascita, splendori e decadenza del Parlamento”.
Ottantasette anni appena compiuti, il 29 giugno, Giorgio Napolitano è l’undicesimo Presidente della Repubblica Italiana dal 10 maggio 2006, terzo partenopeo a ricoprire la carica, secondo Capo dello Stato eletto quando era già Senatore a vita e primo nella storia repubblicana proveniente dalle fila del Partito Comunista Italiano.
Del settennato di Napolitano, che si concluderà a maggio del prossimo anno, sappiamo tutto perché è parte della storia del Paese che stiamo vivendo, ma forse non tutti conoscono o ricordano la sua storia personale e politica. Chi è Giorgio Napolitano?
Napoletano atipico, una voce diaframmatica molto ben curata e calda poco propensa a elevare i decibel in ogni circostanza, dalla gestualità sobria e misurata e uno stile, anche in età giovanile, decisamente british, uomo di altissimo spessore culturale.
Una carriera scolastica ineccepibile che lo porta a conseguire a 22 anni, nel 1947, la laurea in Giurisprudenza presso l’Università Federico II con una tesi dal titolo emblematico “Il mancato sviluppo industriale del Mezzogiorno dopo l’unità e la legge speciale per Napoli del 1904”. Impressiona l’attualità dell’argomento sebbene siano trascorsi già 65 anni!
Quel che le sue biografie ufficiali tendono a minimizzare è un aspetto rilevante della sua formazione giovanile, comunque importante per comprenderne il percorso politico. Così come molti politici e intellettuali di sinistra della sua generazione, e posso citare i nomi di Ingrao, Scalfari, Bocca, Dario Fo e tanti altri, si è forgiato nelle feconde fucine delle organizzazioni giovanili fasciste. Napolitano negli anni dell’università entra a fare parte del GUF, il gruppo universitario fascista, senza apparenti coercizioni e collabora con il settimanale “IX maggio” dove cura una rubrica di critica teatrale. In un epoca nella quale, come ci è stato incessantemente ricordato dal dopoguerra a oggi dai bravi maestri dell’antifascismo, le libertà personali, di espressione e delle idee erano coercizzate da una capillare rete di controlli incrociati, trovo sinceramente stupefacente una rara dichiarazione di Napolitano riferita alle sue esperienze di quegli anni “Il GUF era in effetti un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste, mascherato e fino ad un certo punto tollerato”. Mi chiedo perché mai un regime efferato e illiberale, come ci è stato raccontato, avrebbe dovuto tollerare nella propria organizzazione il proliferare di voci dissenzienti che avrebbero potuto minarne alla base la sua stessa esistenza?
Nel 1945, con pregevole tempismo, aderisce al Partito Comunista Italiano e, confermando le sue innegabili doti politiche, nel 1953 viene eletto in Parlamento per non più uscirne se non per occupare il seggio di parlamentare europeo nel decennio a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Il cursus honorum del nostro Presidente è tutto interno al PCI, e alle innumerevoli sigle che ne hanno rappresentato l’eredità in proiezione socialdemocratica, ricoprendo in tempi successivi gli incarichi di responsabile della sezione lavoro, segretario della federazione di Napoli, coordinatore dell’ufficio di segreteria e dell’ufficio politico a livello nazionale, vicesegretario del partito ai tempi della segreteria Longo, quindi responsabile della politica culturale e responsabile della politica economica. Gli anni Ottanta lo vedono intensificare l’impegno nel dirigere la commissione per la politica estera e le relazioni internazionali del partito, esperienza che ritornerà utile nei primi anni del 2000 quando, da parlamentare europeo, è investito della prestigiosa presidenza della Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo. Nel 2005 Carlo Azeglio Ciampi lo nomina Senatore a vita, sancendo di fatto la Sua successione alla carica di Capo dello Stato che puntualmente avverrà poco meno di un anno dopo. Da ricordare in particolare la sua esperienza di uomo di stato quando nel governo Prodi del 1996, come ministro dell’Interno, lega il suo nome alla famosa legge Turco-Napolitano che istituisce i centri di permanenza temporanea per gli immigrati clandestini, primo serio tentativo di regolamentare una questione che sappiamo quanto sia controversa e dolorosa per il nostro Paese.
Di qualche anno precedente, nel 1992, è l’altra alta carica istituzionale che lo vede protagonista quando, succedendo a Oscar Luigi Scalfaro avviato al Quirinale per il settennato più ignobile nella storia della Repubblica, diventa Presidente della Camera dei Deputati. In quelli che sono considerati gli anni più turbolenti dell’istituzione parlamentare, ricorderete come fosse definita la Camera degli inquisiti per le note vicende di Tangentopoli, Napolitano si distinse per la fermezza e l’equilibrio con cui guidò l’Assemblea cercando di salvaguardarne la dignità agli occhi di una opinione pubblica decisamente ostile. Rimane però un neo in quegli anni alla Presidenza della Camera, una domanda inevasa che ancora oggi attende risposta rivoltagli indirettamente da Bettino Craxi nel dicembre del 1993 quando, nel processo Cusani, dal banco dei testimoni ebbe a dire “Come credere che il Presidente della Camera, onorevole Giorgio Napolitano, che è stato per molti anni ministro degli esteri del PCI e aveva rapporti con tutta la nomenklatura comunista dell’est a partire da quella sovietica, non si fosse mai accorto del grande traffico che avveniva sotto di lui, tra i vari rappresentanti e amministratori del PCI ed i Paesi dell’est? Non se ne è mai accorto?”. In verità molti dubbi rimangono se è vero, come è vero, che la sentenza sulle tangenti della Metropolitana di Milano afferma che Luigi Miyno Carnevale era incaricato di ritirare le quote spettanti al partito comunista e di girarle in particolare alla cosiddetta corrente migliorista, che a livello nazionale fa capo a Giorgio Napolitano.
Napolitano è stato uno degli esponenti storici della corrente di “destra” del PCI, nata alla fine degli anni Sessanta e ispirata ai temi e alle battaglie della socialdemocrazia europea, che vedeva come guida indiscussa Giorgio Amendola, vera icona del pensiero politico italiano ed europeo. L’orientamento riformista di Amendola e, successivamente, di Napolitano fu duramente osteggiato in quegli anni all’interno del partito al punto che venne ribattezzato “migliorista”, con chiaro intento dispregiativo, in quanto si proponeva di migliorare la condizione della classe operaia senza rivoluzionare strutturalmente il sistema capitalistico. Napolitano ha il merito, non indifferente in anni non sospetti, di continuare la battaglia di Amendola per una crescita in senso europeista del PCI con atti concreti quali il sostegno alla candidatura di Altiero Spinelli al Parlamento europeo e la condanna inequivocabile dell’invasione sovietica in Afghanistan. In questo solco è incastonato il rapporto di“ odio e amore” con l’altra icona della sinistra comunista, Enrico Berlinguer.
I due uomini si propongono un obiettivo comune, lo strappo della ingombrante sudditanza del partito dal grande fratello sovietico, il superamento del dogma della lotta di classe e della rivoluzione anticapitalistica, la piena adesione ai valori europei ed occidentali, l’evoluzione verso l’approdo della socialdemocrazia europea. Ma Napolitano è l’uomo della mediazione e del compromesso, mentre Berlinguer è il Parsifal della sinistra italiana, uomo puro, integerrimo e poco propenso a tendere la mano ai cugini socialisti ritenuti “impuri”.
Lo scontro tra i due è inevitabile e lacerante a tratti, destinato a concludersi senza vinti e vincitori stante la tragica e prematura scomparsa del “dolce Enrico”, come lo definisce Venditti.
Dopo la morte di Berlinguer, la linea di politica estera di Napolitano che promuove la piena e leale solidarietà agi Stati Uniti ed alla NATO prevale all’interno del partito al punto che parlando di lui Henry Kissinger dichiarò “is my favourite communist”. Non è forse un caso allora se nel 1978 fu il primo dirigente del Partito Comunista Italiano a ricevere un visto d’ingresso negli Stati Uniti per tenere una serie di conferenze e alla fine degli anni 80 invitato ufficialmente, in veste politica, per un nuovo ciclo di conferenze nelle più prestigiose università.
Si giunge così al settennato che sta trascorrendo sul Colle. È molto probabile che nei decenni a venire la presidenza di Napolitano venga considerata, dagli analisti delle vicende politiche e dagli storici, una delle più prestigiose della storia repubblicana. In verità le vicissitudini della politica nazionale di questi ultimi due decenni ha denunciato i limiti di una decadenza e di un degrado paragonabile forse solo agli anni che portarono al disfacimento dell’impero romano. In un quadro dominato dalla marcata povertà intellettuale e morale dei nostri rappresentanti in Parlamento, dalla incapacità di generare progetti politici di largo respiro, dalla disarmante indisponibilità di interpretare le esigenze reali dei cittadini in un quadro di mutazioni epocali dello scacchiere internazionale, la figura di Giorgio Napolitano giganteggia per l’autorevolezza, che a volte ha sconfinato nell’autoritarismo di alcune discutibili decisioni, con la quale ha gestito il travaglio delle nostre ormai obsolete istituzioni, avocando a se responsabilità di guida del Paese anche oltre le prerogative che la Costituzione gli concedeva.
Ha mostrato lealtà ed imparzialità nei confronti degli uomini e delle compagini che, di volta in volta, hanno assunto l’incarico di governare la Nazione, alla ricerca di una mediazione che fosse a tutto vantaggio degli interessi dei cittadini, anche se il vizio antico italico di avere un occhio di riguardo per i poteri forti che condizionano la vita italiana ha avuto in qualche caso il sopravvento. La genesi del governo Monti è emblematica da questo punto di vista tanto che, nel dicembre dello scorso anno, in un editoriale che ha fatto rumore, il New York Times lo definisce Re Giorgio con il duplice intento di sottolineare l’attitudine a comportamenti da monarca illuminato e l’accostamento alla figura del britannico Giorgio VI, celebre per l’intransigente difesa delle istituzioni.
Non posso comunque non sottolineare una macchia indelebile nella carriera politica di Napolitano, figlia della sottocultura comunista, totalitaria e violentemente irrispettosa delle libertà individuali e collettive, che ha permeato le coscienze di tante generazioni di uomini e donne in Italia e nel mondo. Era la fine del 1956 quando le divisioni dell’impero sovietico consumarono uno dei più efferati crimini contro l’umanità che la storia ricordi, con la repressione dei moti ungheresi.
L’allora giovane ed emergente prospetto del Partito Comunista Italiano dichiarava “l’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo.”
Qualcuno potrebbe pensare a un errore giovanile che avrebbe dovuto portare, nella maturità evolutiva del suo pensiero politico, al pieno riconoscimento del macroscopico errore prospettico. Speranza andata delusa esattamente 50 anni dopo, a pochi mesi dall’elezione a Capo dello Stato, quando in occasione delle celebrazioni per il cinquantenario dei moti il Presidente magiaro stigmatizzo con una nota ufficiale le mancate scuse del Presidente italiano per le dichiarazioni a sostegno del crimine sovietico. Un occasione persa.
Peccato Presidente!