Sabato 1 dicembre, in una mattinata livida e fredda come se ne vivono spesso nel cuore della pianura padana in questa stagione, mi sono recato nel nosocomio del paese per effettuare degli esami di laboratorio. Lasciata l’auto nell’ampio parcheggio, immerso nel verde, mi sono avviato all’ingresso ammirando come sempre l’armoniosa imponenza del plesso. Per darvi un’idea pensate che il borgo in cui vivo, in provincia di Brescia, conta circa 14.000 anime ed il suo ospedale è grande il doppio dell’Ospedale Civile di Martina. Attraverso i corridoi, puliti e silenziosi come quelli di una cattedrale, entro nell’ampia sala dell’accettazione sorpreso di trovarla colma di circa 70 persone in attesa. Dopo aver ritirato il numerino fatidico mi accomodo, rassegnato ad una lunga attesa, e comincio ad osservare i convenuti. Pulizia ed ordine la facevano da padroni e solo un leggero brusio era testimone di una concentrazione alta di donne, uomini e bambini, tanti bambini, delle più svariate etnie: bresciani, ovviamente, ma anche nord africani e centro africani, slavi, indiani, pakistani, cinesi, sintesi reale della multietnicità di una cittadina che accoglie 4.000 immigrati. Non un solo tono di voce sopra le righe, non un segno di insofferenza per l’attesa, sicché dopo neanche un ora avevo sbrigato le mie incombenze. Questo apparentemente banale episodio di vita quotidiana mi ha suggerito alcune domande ed alcune considerazioni. Innanzi tutto ho cercato di immaginare cosa accade, nelle stesse condizioni, in un ospedale del centro sud del Paese. Che nessuno si senta offeso ma ho pensato a pavimenti ricettacolo di carte ed altro, vicini di sedia impegnati in conversazioni dai decibel decisamente troppo alti, proteste per i tempi di attesa ed improperi più o meno gentili nei confronti degli addetti all’accettazione ritenuti responsabili delle lungaggini, furbetti del quartierino che, forti di amichevoli rapporti con gli operatori al di là del vetro, bypassano le code sentendosi anche molto furbi. Altra considerazione ed altre domande. Se è vero, come è vero, che la sanità pubblica, le sue strutture e la loro gestione, è finanziata con i soldi di tutti noi come mai, generalmente, gli ospedali del nord sono più efficienti e funzionali di quelli del centro sud e, per converso, come mai gli ospedali del centro sud hanno dei costi di gestione doppi o tripli di quelli del nord? Come mai i conti della sanità delle regioni del nord sono attivi, o tuttalpiù in pareggio, mentre quelli del centro sud sono tutti drammaticamente passivi? Ma la domanda più angosciante è: perché anche questo governo di mentecatti, così come quelli che lo hanno preceduto, invece di adoperarsi per traslare nelle strutture del centro sud le gestioni virtuose delle strutture del nord, dà l’impressione, che è quasi una certezza, di voler smantellare anche ciò che funziona (vedi le ultime dichiarazioni sul SSN del pavido Monti o la decisione di eliminare 2.500 posti letto in Lombardia, la regione più popolosa del nostro Paese, per trasferirli al sud)? Perché perseverare in politiche autodistruttive? Cui prodest?