Gli uomini come lui, non si commemorano, ma si ricordano; si esaltano, si comprendono, quando se ne è capaci. Perché il contestato premio Nobel per la Letteratura del 1997 non è stato solo un attore teatrale, ma un Maestro
Chi è Dario Fo?
«Dario Fo, essere vivente, per il momento. Sono nato nel 1926 a Sangiano, un paese nei pressi del Lago Maggiore. Fin da ragazzino creavo stupore per come dipingevo e soprattutto per la bellezza del mio canto; ma giunto all’età della ragione capii che quelle doti non mi avrebbero giovato in nessun modo per cui, sconvolgendo i miei genitori, scelsi di fare il mestiere più sgradito a tutti: l’attore.
Per fortuna incontrai Franca che mi disse: “Ma che ci fai qua?! Dammi retta, se hai scelto questo mestiere pensando di cavartela con meno fatica, hai sbagliato tutto! Dovrai romperti la testa e la schiena se vuoi evitare di diventare uno spiantato!” Beh, mi è andata bene, non vi pare?».
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Per ricordarlo, ho voluto immaginarlo così Dario Fo, come “essere vivente” così come presenta se stesso sulla pagina del suo blog sul sito de Il Fatto Quotidiano. Gli uomini come lui, non si commemorano, ma si ricordano; si esaltano, si comprendono, quando se ne è capaci. Perché, il contestato premio Nobel per la Letteratura del 1997, non è stato solo un attore teatrale, ma un Maestro, “una persona che in virtù delle cognizioni ed esperienze acquisite, risulta(va) all’altezza di contribuire in tutto alla preparazione o alla formazione altrui” (Devoto-Oli, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier).
Fo è stato il giullare del teatro del Novecento, il giullare temuto dai poteri forti, in grado di scardinare totalmente l'idea stessa di teatro come era concepita fino al suo arrivo sulle scene.
In Italia, fino alla prima metà del XX secolo, pensare teatro significava recarsi a vedere il grand'attore di stampo Ottocentesco, capace di regalare al pubblico una lezione di teatro accademico. Nel dopoguerra, con la nascita degli stabili, fra tutti il Piccolo Teatro di Milano sorto nel 1947 ad opera del duo Strehler-Grassi, i più accorti uomini di teatro del tempo estesero la loro attenzione fuori dagli ormai ristretti confini nazionali. Fu così che giunse anche Bertold Brecht, con il suo teatro di-verso, epico, straniante.
In quella Milano degli anni Cinquanta, Fo comincia a fare cabaret con Giustino Durano, Franco Sportelli e Franco Parenti, dando vita - da subito - al poer nano, un personaggio irriverente, un cantastorie un po’ spaccone che, con i suoi monologhi presentati con un pastiche di dialetti lombardo-veneti, interpretava a suo modo personaggi storici. Questa forma teatrale, inoltre, consentiva per sua natura, un rapporto molto stretto con il pubblico che avrebbe permesso al giovane Fo di affinare una recitazione comico-satirica, basata sulla situazione d’improvviso, sull’uso espressivo-mimetico del corpo.
Il suo teatro – a detta di molti studiosi - è stato diretta emanazione della sua drammaturgia, del suo corpo d’attore, del suo essere allampanato e sgraziato, del fare teatro come esigenza di libertà, attraverso una sapiente ed acuta analisi del mondo circostante nei suoi aspetti sociali, antropologici e politici (non si dimentichi il suo attivismo politico negli anni di piombo).
Fo sarebbe riuscito a coniugare perfettamente le forme tecniche drammaturgico-recitative ispirate alla Commedia dell’Arte con un’idea brechtiana del teatro, utilizzando il comico come pre-testo per denunciare soprusi, paradossi, falsità, pregiudizi, talvolta complotti politici-giudiziari; si pensi, a tal proposito, a Morte accidentale di un anarchico (1970), dedicato alla morte (accidentale?) dell’anarchico Pinelli.
Non si potrà qui fare un elenco dettagliato ed esaustivo della vita e delle opere dell’artista lombardo, ma non possiamo non ricordare il successo ottenuto con il famosissimo spettacolo Mistero Buffo del 1969, che ha visto un numero indefinito di repliche, oltre ad una edizione Rai con il contributo della casa editrice Einaudi, diffusa in VHS e DVD anche in questi anni.
Questo testo, scritto, interpretato e diretto da Fo riassume tutta la sua arte scenica: l’abilità di impastare i lazzi e i canovacci della Commedia dell’Arte, la capacità di creare ritmi coinvolgenti, il coraggio di parodiare la letteratura “alta”, fino all’originale, unico ed inconfondibile gramelot, una contorsione linguistica, mediante la quale si crea un pastiche di lingue, di dialetti in cui si uniscono indissolubilmente corpo e voce.
Teatro dialettale, originalità e unicità scenica portano Dario Fo, insieme ad Eduardo De Filippo, ad essere gli unici a riassumere in sé, così efficacemente, le doti autoriali, attoriali e registiche. Non possiamo ovviamente accanto a queste doti artistiche non ricordare anche l’amata Franca Rame (lei stessa discendente da una famiglia di comici che recitavano testi farseschi), con la quale Dario Fo avrebbe creato un sodalizio umano ed artistico straordinario.
Per fortuna, i suoi spettacoli, le sue lezioni in forma di spettacolo (penso a quella con Giorgio Albertazzi) sono fruibili attraverso video presenti su Internet. Questi, insieme a quadri, copioni, volumi, come il Manuale minimo dell’attore (1987, Einaudi), un vero e proprio trattato sull’arte scenica, rappresentano per noi e per le future generazioni un’eredità da ammirare e tramandare.
Nel chiudere…il sipario, voglio ricordare un passo del suo messaggio pronunciato in occasione della consegna del premio Nobel:
«Il nostro dovere di intellettuali, di gente che monta in cattedra o sul palcoscenico, che parla soprattutto con i giovani è quello non soltanto di insegnare come si muovono le braccia, come si respira per recitare, come si usa lo stomaco, la voce, il falsetto. Non basta insegnare uno stile: bisogna informarli di quello che succede intorno. Loro devono raccontare la loro storia. Un teatro, una letteratura, una espressione d’arte che non parli del proprio tempo è inesistente».
Buona (nuova) vita, Maestro!