Il perchè affrancarsi dai partiti nazionali reca alcuni vantaggi e, nella composizione delle liste, la logica della quantità prevale sulla logica della qualità e la logica delle velleità personali su quella del bene comune
Ci siamo. L’undici giugno è alle porte e ciò che è fatto è fatto. Ma adesso diamo un po’ di numeri, giacché in città non si parla ormai d’altro. Ciò che rimarrà sicuramente nella storia politica tarantina non può che essere, però, la “sentita” quanto improvvisa voglia di partecipazione dei cittadini alla vita politica attiva della città.
Dieci candidati a sindaco, quaranta liste, migliaia di candidati a consigliere comunale per soli trentadue posti in consiglio. Stando alla matematica, ogni candidato consigliere potrà contare su una media di non più di 150 voti a testa. Sarà voglia di mettersi in gioco o fenomeno diffuso di malcostume politico? Sarà un forte senso civico radicato nelle coscienze dei cittadini o degenerazione della politica?
Certamente è comprensibile, quasi fisiologico, che - dopo dieci anni di crisi e immobilismo a cui l’amministrazione Stefàno ha sottoposto la città di Taranto - molti abbiano sentito il dovere di esprimersi, dire la propria, metterci la faccia per provare a fare di meglio (anche se poi non è così difficile fare di meglio…). Tant’è che in dieci anni di mancanza di alternative politiche nessun progetto di ampio respiro è stato messo a punto per la città, nessuna opera infrastrutturale realizzata, e niente per cui una amministrazione possa essere degnamente ricordata, ma solo letterine ai ministri e cambi repentini di casacche, valzer di assessorati e abusivismo dilagante, ridicoli annunci di chiusura Ilva quindi collezioni di gaffes varie (non ultima quella sulla presentazione in pompa magna della statuetta rinvenuta in mare poi rivelatasi, a detta della Soprintendenza, priva di “alcun interesse archeologico”). Solo uno spettacolo pietoso a cui i tarantini hanno assistito passivamente a proprio danno. Ed ecco che, paradossalmente, il pediatra che doveva curare la città ha solo aggravato le sue condizioni, il sindaco che doveva risollevare le casse dissestate dell’ente comunale - appoggiato dall’allora imprenditoria rampante - ha solo contribuito a mandare più in fallimento (etico-politico) la città.
Ma ritornando ai nostri già citati numeri, occorre precisare che ogni candidato ha il sacrosanto diritto all’elettorato passivo, ognuno ha un “quid” su cui puntare e una categoria da rappresentare. E molti di questi 1300 candidati al consiglio comunale sono anche bravi, preparati e senza dubbio onesti: per cui se credere è lecito, provarci è legittimo. D’altronde, come nel calcio il pallone è rotondo, nelle urne la matita è appuntita.
Allora dov’è il problema? Se partecipare è un dovere democratico - e quindi cosa buona e giusta - a puzzare, però, è certamente quell’anomalo dato sull’eccesso di partecipazione. Da circa una decina d’anni a questa parte stiamo assistendo infatti a una certa degenerazione della politica, non già per la deideologizzazione dei partiti tradizionali per cui presentarsi con un simbolo di partito alle spalle suona quasi come un imbarazzo da cui doversi disfare per “avere le mani libere”, quanto per l’incapacità della classe politica di trovare una sintesi o, addirittura, la volontà di farlo per il solo fine di accaparrare quanti più seggi possibili in consiglio comunale.
Se nel 2017 la nuova frontiera del populismo è il civismo, allora la moda del momento è costruirsi una lista civica a propria immagine e somiglianza e posizionarla dove c’è più speranza di raccattare un piccolo bottino, per sé e per i pochi amici più fidati. Così, più che costruire un’idea di città per prendere più voti dei competitors, conta candidare quanta più gente possibile, di ogni estrazione sociale e senza un minimo di selezione culturale a monte. E addio ideali.
Conoscere il sistema elettorale, sulla base del quale avviene la ripartizione dei seggi dopo le elezioni, è già la condizione sine qua non per chi sa fare politica. Ecco dunque spiegato anche il perché di dieci candidati a sindaco e quaranta liste ad essi collegati: o mi candido a sindaco e nella peggiore delle ipotesi provo a diventare consigliere, o mi apparento al secondo turno con uno dei due papabili per far valere il mio peso elettorale e avere in cambio una poltrona. Tutto a spese di una buona fetta di quei 1300 soldati, ignari - molto spesso in buona fede - di questa singolare alchimia politica.
Questa è, probabilmente, la “scienza delle costruzioni” che è alla base di tutta l’ingegneria politica locale. Liste, listarelle, slogan, buoni propositi, curricula, volti puliti e tante belle idee, alcune surreali altre invece fattibili: a cosa servono se poi “tutto è scritto” e ad avere la meglio saranno sempre e comunque i soliti?
L’argomento è molto delicato e occorre tuttavia avere rispetto di chi ha il coraggio di mettersi in gioco, sfidare la critica e un po’ anche la fortuna. Taranto si gioca il futuro da qui ai prossimi cinque anni e siamo di fronte ad una campagna elettorale alquanto ambigua, difficile, dai tratti davvero imprevedibili, proprio perché - semmai vi sarà (e quasi certamente vi sarà) - al secondo turno può succedere di tutto e di più. Inoltre, se affrancarsi dai partiti nazionali forse porta qualche vantaggio in termini di consensi elettorali, visto che ormai gran parte della gente ha perso la fiducia nella classe politica italiana, in qualche modo poi bisogna governare e con quest’ultima interfacciarsi, dialogare e se necessario scontrarsi: cosa certamente molto più difficile per un amministratore locale che non ha un riferimento nazionale alle proprie spalle.
In ogni caso, chiunque sarà a spuntarla sarà investito da una duplice sfida per il dopo-elezioni. Non solo fare qualcosa di buono per la propria città, aggregando attorno a sé le migliori energie della società civile, ma anche ripristinare i valori ormai in disuso della politica e riscattare il grande assente di questa tornata elettorale: la partitocrazia tradizionale.