Dopo anni di sputtanamento a reti unificate qualcuno alla fine è venuto a dirci che il sistema messo in piedi da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi non era di tipo mafioso ma un semplice (si fa per dire) intreccio affaristico dagli ovvi risvolti giudiziari
Insomma, più che di Mafia Capitale si è trattato della ennesima fiction che va ad aggiungersi alle molte in circolazione sul tema.
Le pene sono state esemplari e non poteva essere altrimenti visto che, in caso contrario, il clamore scatenato dalle intercettazioni di quattro cazzari straparlanti si sarebbe trasformato in un pericoloso autogoal. Tuttavia, la caduta del capo di accusa più pesante (l’associazione mafiosa per l’appunto) dovrebbe far riflettere sul ruolo della magistratura in questo Paese e sulla scarsa cautela con la quale si sbattono dei mafiosi in prima pagina.
Il tutto generando (forse) una certa qual forma di involontaria sudditanza psicologica sul collegio giudicante, il quale viene di fatto messo nell’oggettiva difficoltà di derubricare a bufala un processo iniziato come scandalo di portata mondiale. Detto ciò e volendo rispettare il verdetto che descrive una commistione penalmente rilevante tra decisore politico, apparato burocratico e sistema economico, non si può non rilevare che il quadro che ci viene restituito, ancorché non di stampo mafioso, risulti desolante e foriero di una riflessione molto più generale riguardante le dinamiche che insistono sul nostro Paese.
Roma, come esempio più eclatante della parabola compiuta dall’Italia intera (o quasi), viene descritta come un luogo di maneggioni di quart’ordine, di imprenditori che giocano a fare i businessmen onde poi campare del solito appaltino ottenuto con il solito impiccetto sulle casse pubbliche, uniche mucche da mungere rimaste in Italia visto che nessuno compra più beni e servizi.
Dall’altra parte della barricata, visto che a corruttore corrisponde sempre corrotto, il fasciolaro mascherato da imprenditore chi si ritrova? Molto spesso si ritrova il funzionario pubblico o il ras politico di provincia i quali non aspettano altro se non che il mediocre, per tappare qualche buca per la strada, sganci la percentuale utile ad ungere le ruote, forse anche prima ancora che gli venga richiesta. Dazione che svaria a seconda dei luoghi e dell’importanza dell’opera: si va dalla cena pagata alla bustarella, a dimostrazione del fatto che tutti hanno un prezzo ma alcuni sono in saldo per 365 giorni all’anno.
Ma mentre il funzionario comunale lo fa per questioni di denaro ovvero per capitalizzare quello straccio di lavoro spernacchiato unanimemente da una società che non considera più il pubblico dipendente come servitore dello Stato, il politico, il più delle volte, lo fa per accumulare risorse buone (o crediti di riconoscenza) per la successiva campagna elettorale.
Ciò perché, se l’imprenditore è pian piano diventato un buzzurro con l’ambizione di campare con appalti pubblici, dall’altra parte il politico che ci si ritrova di fronte è molto spesso una roba che non somiglia nemmeno lontanamente ad uno statista. Generalmente, il minus habens iscritto a Confindustria deve trattare con un decisore politico finito per puro caso in abito blu e cravatta dietro uno scranno, insomma una parodia di Antonio Razzi per giunta senza idee che di lavoro fa lo “schiacciatore di pulsanti” ben pagato o l’approvatore di provvedimenti con il voto elettronico che dir si voglia. Molto spesso il sedicente imprenditore si interfaccia con un politico fatto così, confuso, senza idee, con la consecutio claudicante, preoccupato di poter investire due soldi (non suoi) nella prossima campagna elettorale e comprarsi così il consenso o il seggio perché altrimenti se fosse per la vision o i programmi starebbe fresco.
Male che vada - e cioè nel caso in cui dovesse rivelarsi una meteora della politica - l’intento è quello di capitalizzare al massimo il colpo di fortuna piovuto dal cielo. Così è Roma, come emblema dell’Italia tutta, e ci viene descritta da questo processo proprio come una città mediocre, incapace di eccellere in ciò che - di buono o di brutto - fa. E questo è davvero desolante o forse la cosa più desolante in questo ennesimo scandalo.
E che Roma sia piombata in un cono di irrilevanza senza precedenti, che Roma non ospiti professionisti sia tra le guardie sia tra i ladri, lo si comprende, oltre che dal basso cabotaggio criminale ridottosi in alcuni casi a mera macelleria, anche nella decisione di tutte quelle società (petrolifere, televisive ecc.) che prima avevano bisogno di stare vicino alla politica come centro di potere e che oggi hanno deciso di abbandonare Roma perché caotica e male amministrata oltre che per via di Istituzioni che non determinano più nulla: della serie non abbiamo più bisogno di voi perché noi siamo una lobby economica e voi non siete più una lobby politica.
Ora, tutto ciò premesso, il futuro non è certo migliore del presente: Virginia Raggi l’altro ieri era in aula alla lettura della sentenza come a voler marcare simbolicamente la differenza tra il “vecchio sistema” e il nuovo corso di cui il sindaco pro tempore di Roma pretende di ergersi ad emblema. Sarebbe troppo facile chiederle di non fare la smorfiosetta ricordandole le numerose vicissitudini legate direttamente ed indirettamente alla sua Giunta ed infatti non lo faremo. Solo il caso di chiarire a costei che il teorema che sottende il processo giudiziario in questione è proprio imperniato sulla commistione tra l’apparato politico e la società civile a dimostrazione del fatto che il problema in Italia non è tanto o solo la classe politica ma è quel complesso sistema di disvalori diffusi che rendono ormai impossibile tracciare una demarcazione netta tra la invisa Kasta e la gente comune tanto cara ai pentastellati.
Il problema è sociale, quasi diffuso verticalmente: il maneggione potrebbe essere l’insospettabile della porta accanto, il geometra, il visurista, l’impiegato comunale, quello del catasto, il consigliere circoscrizionale tanto bravo che ti ha fatto riparare la lampadina sotto casa. Inutile quindi che la Raggi vada a fare la Giovanna d’arco nelle aule di giustizia perché, da “Mani Pulite” in poi, di moralizzatori e di gente che si dichiarava contro il sistema l’Italia ne ha avuta a pacchi. E sappiamo tutti com’è finita.