L’ennesimo agguato nella guerra tra clan che si sta consumando tra la Capitanata e il Gargano. Un’esecuzione in pieno giorno, in strada, con due vittime innocenti, colpevoli solo di aver assistito all’omicidio di un presunto boss. La soluzione? Chiamare le cose con il giusto nome
La mafia foggiana è mafia. Punto. Almeno a questo sarà servita la morte di due innocenti. Niente più giri di parole. Da anni c'è chi ne parlava e veniva accusato di infangare la Capitanata (come se non fosse la mafia a spargere fango e qualcosa di molto più puzzolente e putrido nel contesto sociale, economico e politico locale). Basta con tentativi di edulcorare e sottovalutare. Basta con forme, anche involontarie (ma a volte purtroppo volontarie), di vicinanza, di accondiscendenza, da parte della politica (i voti della mafia fanno comodo!) e dell'economia (meglio pagare il pizzo che avere fastidi!). Serve innanzitutto un'azione di polizia più efficace, soprattutto dal punto di vista investigativo, oltre che repressivo. Ma serve un'azione più sotterranea, più lenta, più lunga, sistematica di costruzione dal basso di una coscienza civile, di legalità diffusa (a tutti i livelli, anche quelli apparentemente 'insignificanti', come la cura del decoro di una città). Un'azione che coinvolga tutti, nessuno escluso, e che deve vedere in prima linea il mondo della scuola, dell'università, della cultura. Serve la costruzione di una classe politica più colta e con una visione progettuale (ovviamente onesta, ma l'onestà da sola non basta; è solo un requisito prepolitico, ma insufficiente, checché ne dicano alcuni che la sbandierano come la soluzione di tutti i mali; un medico onesto ma incompetente potremmo sceglierlo come amico ma certo non lo sceglieremmo per farci curare). Servono rimedi radicali con un forte impatto, ma anche pillole quotidiane di cultura, di civismo, di cura degli spazi comuni per guarire una malattia così profonda. Alcuni questo lo fanno da anni, a volte isolatamente e in silenzio. Chi organizza iniziative di cultura, di sport, di socializzazione, per tutti. Chi insegna nelle scuole e nell'università tra mille difficoltà. Chi si impegna per gli ultimi. Chi ha deciso di restare e di lottare. Chi recupera un edificio abbandonato nel centro storico o un pezzo di parco cittadino strappandolo al degrado, allo spaccio, alla microillegalità e lo restituisce a nuova vita e ai cittadini, purtroppo spesso nel disinteresse delle istituzioni. Chi costruisce occasioni di lavoro e di economia sana, pulita, valorizzando il patrimonio locale e non consumandolo e distruggendolo. E tanti tanti altri. Ecco, servirebbe un maggior sostegno a queste iniziative, a queste associazioni, a queste organizzazioni, a queste persone. E come scriveva Calvino nelle Città invisibili, bisogna riconoscere "chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio".
E forse, in questi giorni, qui a Foggia, in Capitanata, le parole di Calvino sono quelle che rendono meglio cosa serva: “L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
* Professore ordinario di Archeologia cristiana e medievale presso il Dipartimento di studi umanistici dell'Università degli studi di Foggia. Dal 2008 al 2013 è stato Rettore dell'Università degli studi di Foggia. Attualmente è Presidente del Consiglio Superiore per i Beni culturali e paesaggistici del MiBACT.